Lidia Macchi/ANSA

Dopo 34 anni, il delitto di Lidia Macchi resta irrisolto. Mercoledì 27 gennaio la Cassazione ha confermato l’assoluzione di Stefano Binda dall’accusa di aver ucciso la 21enne, che venne accoltellata 29 volte e ritrovata morta nel bosco di Cittiglio, in provincia di Varese, nel gennaio 1987. Binda, ex-compagno di scuola della vittima, come lei attivo nel movimento cattolico di Comunione e Liberazione, era stato arrestato nel 2016: una perizia grafologica l’aveva individuato come presunto autore di una lettera anonima inviata alla famiglia Macchi il giorno del funerale della figlia. Nel testo era descritta in forma poetica la morte della giovane studentessa di giurisprudenza, con dettagli che secondo l’accusa potevano essere noti solo all’assassino.

La vicenda giudiziaria – Binda era stato prosciolto in appello dalla Corte d’Assise di Milano il 24 luglio 2019, dopo essere stato condannato all’ergastolo in primo grado a Varese nel 2018 e aver passato tre anni e mezzo in carcere. Il ricorso presentato dalla procura generale di Milano e dalla famiglia Macchi è stato ieri dichiarato inammissibile, come aveva chiesto anche il Sostituto procuratore alla Cassazione Marco Dall’Olio. Nel verdetto di assoluzione «il principio di presunzione di innocenza e quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio sono stati correttamente applicati», ha dichiarato Dall’Olio. Il procuratore ha anche osservato che l’alibi di Binda «non è stato smentito, non c’è il movente, non è suo il dna trovato sul corpo della vittima e nessuno ha individuato contatti tra Binda e Macchi la sera della scomparsa della vittima». «È finito un incubo ma non c’è nulla di onirico, perché l’ho vissuto in maniera molto lucida», ha commentato al Corriere della Sera Stefano Bindi: «Altri hanno forse dormito nel più classico dei sonni, quello della ragione che partorisce mostri».

La reazione della famiglia – La madre e i fratelli di Lidia Macchi (Paola, Stefania e Alberto Macchi) hanno scritto in una lettera di ritenere «che durante il corso delle indagini e soprattutto dei processi non siano emerse prove a sufficienza per ritenere che Stefano Binda sia stato l’assassino di Lidia» e di comprendere quindi «la sua completa assoluzione». «In noi rimarrà per sempre la ferita di non aver trovato il colpevole della morte di Lidia, anche alla luce della dolorosa scoperta della distruzione e sparizione di alcuni reperti che con le tecniche moderne avrebbero potuto portare un apporto decisivo in questo percorso giudiziario», hanno aggiunto. Il riferimento ai reperti scomparsi, come spiega il Corriere della Sera, riguarda la distruzione accidentale avvenuta nel 2000 dei vetrini che contenevano liquido seminale ritrovato sul corpo della ragazza.

Il caso – Scomparsa la sera del 5 gennaio 1987, Lidia Macchi venne ritrovata morta due giorni dopo dai suoi amici di CL, che si erano organizzati in squadre di ricerca. L’autopsia rivelò che aveva avuto un rapporto sessuale prima di essere uccisa, ma non è mai stato confermato che si sia trattato di violenza. Le indagini all’epoca si concentrarono su alcune figure vicine a Comunione e Liberazione, ma senza risultati. Nel 2013, su richiesta della Procura di Milano, gli atti e l’indagine sul caso Macchi vennero spostati da Varese. Nel 2015, vedendo in tv durante la trasmissione Quarto Grado l’immagine dell’originale della poesia “In morte di un’amica”, inviata anonimamente alla famiglia di Lidia, una conoscente di Stefano Binda affermò di averne riconosciuto la grafia. Dopo un confronto grafologico fra la lettera e alcune cartoline inviate da Binda, l’uomo venne arrestato nel 2016 con l’accusa di omicidio. Gli esami confermarono però che le tracce di dna ritrovate sul corpo di Lidia non erano di Binda.