Liliana Segre ha cominciato a girare con due carabinieri di scorta. Il provvedimento di ieri, mercoledì 6 novembre, del Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico ha avuto effetti immediati sulla quotidianità della senatrice a vita. Più di 200 insulti razziali e minacce giornalieri soprattutto tramite i social hanno portato a questa decisione.
Responsabilità – «Se la Segre è costretta ad avere la scorta, non è colpa delle piattaforme online, che sono uno strumento, ma delle persone che la insultano sul web», dice Giuseppe Cruciani, conduttore de La zanzara su Radio 24, intervenendo sul tema al Glocal, il festival del Giornalismo digitale in corso a Varese. «Prima di internet quelle parole sarebbero state scritte sui muri o dette altrove. Sarebbe bellissimo pensare di attribuire a Google e Facebook una responsabilità editoriale, ma di fatto è irrealizzabile», continua Cruciani, sostenendo che piuttosto debbano essere individuati i diretti responsabili. Il giornalista radiofonico ha difeso i social in un botta e risposta con il presidente dell’Ordine dei giornalisti lombardo, Alessandro Galimberti, che aveva sostenuto il contrario: «Google, Facebook e Instagram sono editori: dovrebbero avere responsabilità su tutto quello che viene pubblicato nei loro spazi. Hanno un controllo capillare ma non lo sfruttano, perché altrimenti perderebbero clic, quindi soldi».
Ritorno all’ordine – Ha contribuito al dibattito anche Valerio Staffelli, storico inviato di Striscia la Notizia, sempre a rischio a causa del suo lavoro, tra minacce di morte e messaggi ai famigliari: «Purtroppo le società che dipendono dagli Usa hanno solo responsabilità civile per il principio di libertà di espressione». Giornalista iscritto all’albo, Staffelli è in realtà tornato in lista tra i professionisti dopo una latitanza che durava dal 2003: «Mi sono allontanato dopo che Del Noce mi ha rotto il naso con un microfono strappatomi dalle mani». L’allora direttore di Rai 1 è poi stato condannato in Cassazione nel 2017 a un risarcimento di 84 mila euro. Ma Staffelli si aspettava una condanna dall’Ordine: «Eravamo entrambi giornalisti, non uscì nemmeno una nota per condannare il comportamento». Oggi però è regolarmente tesserato. «La nuova direzione regionale mi ha spinto a tornare, la garanzia di un ordine professionale alle spalle è fondamentale».
L’ordine serve? – L’idea di una rete solidale tra colleghi è condivisa anche da Raffaele Fiengo, giornalista e per molti anni rappresentante sindacale del Corriere della Sera, che ha ricordato la sua funzione nella protezione della democrazia e dei più deboli: «Il giornalismo dovrebbe essere come il subak, il sistema di irrigazione balinese. Portare l’acqua in ogni campo da coltivare è un esempio perfetto per la catena umana di informazione». Molti concordano, però, nel sostenere che il compito dell’Ordine per la creazione di una rete di fiducia non sia ancora compiuto: si sentono la mancanza di una compensazione standard per i freelance, necessaria più che mai in un mercato editoriale in continua contrazione, e l’ambiguità nominale dei pubblicisti nei due anni che precedono l’iscrizione al registro. Il presidente nazionale Carlo Verna ha ricordato che in assenza di contratto di testata non ci sono alternative all’Ordine, che però «deve rispondere a problemi nuovi con regole nuove, invece di riproporre quelle vecchie». Da qui le sue proposte, in fase di attuazione: una retribuzione minima dei professionisti, che si sta ipotizzando sui 30 euro all’ora, e un patentino che attesti l’attività dei pubblicisti in un contesto giornalistico come se fossero praticanti. «Questo non significa che il compito di aggiornamento stia solo all’Ordine» ha aggiunto, ricordando la lentezza burocratica e legislativa che accompagna i provvedimenti. «La nuova sfida dei giornalisti sarà applicare l’attitudine dei cani da guardia della democrazia anche contro i nuovi poteri, quelli tecnologici».