In principio era il Verbo. La parola che crea e che distingue. E se è vero che il linguaggio plasma la realtà e non solo la descrive, allora è importante interrogarsi su quale società vogliamo costruire attraverso le parole che scriviamo e pronunciamo. Su questo tema si sono confrontati mercoledì 5 marzo docenti e giornalisti, in una tavola rotonda organizzata dalla Scuola di Giornalismo Walter Tobagi e dal Dipartimento di Lingue, Letterature, Culture e Mediazioni dell’Università Statale di Milano dal titolo “Che genere di linguaggio”. Nell’aula magna del polo di Sesto San Giovanni il linguaggio di genere è finito al centro, ma la riflessione è stata molto più ampia. «Ascoltando chi governa il mondo oggi ci siamo trovati di fronte a un linguaggio, nei suoi modi e nella sua brutalità, completamente differente da quello che abbiamo imparato a conoscere in tanti anni», ha commentato in apertura Venanzio Postiglione, direttore della Walter Tobagi e vicedirettore del Corriere della Sera.
Insieme a lui, per i saluti istituzionali, anche il direttore del dipartimento Marco Castellari e la rettrice dell’Ateneo Marina Brambilla che ha sollecitato a «riflettere sull’impatto del linguaggio giornalistico in merito alla parità di genere», proprio in concomitanza della giornata internazionale della donna. Dopo le parole della rettrice, hanno dialogato Nicoletta Vallorani, direttrice della scuola di giornalismo e docente di Letteratura inglese, Francesca Romana Recchia Luciani, docente di Storia della filosofia contemporanea e responsabile della linea d’azione relativa alle questioni di genere dell’Università di Bari, Giuseppe Sergio, professore di Linguistica italiana dell’Università degli studi di Milano e le giornaliste Irene Soave del Corriere della Sera e Roberta Giuili di Sky Italia. Francesca Fulghesu e Pietro Faustini, giornalisti praticanti della Tobagi, hanno moderato l’incontro.

Da sinistra: Nicoletta Vallorani, Roberta Giuili, Francesca Fulghesu, Pietro Faustini, Irene Soave, Giuseppe Sergio, Franscesca Romana Recchia Luciani
«Il modello standard di prestigio della lingua non è più quello della letteratura ma quello dei giornali», ha sottolineato Sergio. Da qui necessità di una presa di responsabilità che, chi si occupa di comunicazione, deve assumere. Il linguista e docente ha ricordato il libro di Alma Sabatini “Il sessismo nella lingua italiana”, del 1987: «Il suffisso -ismo riporta alla mente le ideologie anche in senso deteriore. L’etichetta di “lingua sessista” è molto forte, non è riuscita a impiantarsi fino in fondo negli studi». Ma che la lingua italiana lo sia, lui non ha dubbi. Non è della stessa idea l’intera comunità accademica, ma, ha provocato Sergio, se in 800 anni di storia la prima rettrice donna di un’università italiana è arrivata solo nel 1992 (Bianca Maria Tedeschini Lalli, alla Sapienza) «forse un tema c’è». Brambilla, in 100 anni dalla nascita della Statale di Milano, è la prima donna a rivestire la carica di rettrice. Ed è innegabile che solo negli ultimi decenni certe professioni siano diventate appannaggio anche di donne, con una ricaduta di tipo linguistico. Qualcuno ha difficoltà a dire “avvocata” e “ministra”, e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha richiesto di essere definita “il signor presidente”. Ma, risponde Recchia Luciani, «se una parola è irritante, ciò risponde a un’irritazione di tipo culturale».
L’invito di Soave, però, è di tenere sempre a mente che il consenso su questo tema non è unanime: «C’è molta gente che identifica la mentalità woke – da awake, “sveglio”, “consapevole” – , come un eccesso di cautela, di capziosità, che porta a distogliere l’attenzione dalla sostanza delle discriminazioni di cui ci si vuole occupare». E ha esortato i giornalisti ad attenersi non a un proprio sentire, quanto «a quello che c’è già», alla deontologia professionale che prescrive dal 2021 un uso non discriminatorio in termini di genere: «L’uso dei nomi femminili è una questione di lingua italiana e la deontologia lo rimarca». Ma è anche vero che non c’è un organismo di controllo. Giuili ha raccontato i cambiamenti nella sua redazione, e ha proposto di istituire una figura redazione che, sul modello di quello che avviene già negli Usa e in Spagna, si occupi di controllare, ad esempio, il rispetto di una certa terminologia in tema di femminicidi.
Ma come definire un linguaggio che possa essere non discriminante non solo rispetto al genere, ma anche rispetto a altre categorie penalizzate? Linguaggio inclusivo? «Se qualcuno deve includerti allora c’è una gerarchia», risponde Recchia Luciani che parla, invece, di “linguaggio ampio”, in linea con la proposta della sociolinguista Vera Gheno. Il genere, infatti, è solo uno degli assi identitari su cui gioca la discriminazione, e parlare di “linguaggio ampio” significa tener conto anche delle persone non binary, di quelle queer e di quelle con disabilità. A Bari, la docente è riuscita a istituire il primo dottorato in Italia di gender studies: «Sono 78 giovani dottorandi, dottorande e dottorandu», spiega Recchia Luciani, che usa il suffisso -u in quanto «il 10% di persone chiedono la carriera alias». Ovvero un protocollo che dà la possibilità di registrarsi con un nome che corrisponde alla propria identità di genere anche se diverso da quello anagrafico. «Noi dobbiamo davvero nominare, perché nominare significa far esistere». Il riferimento è al tentativo del presidente statunitense Donald Trump di eliminare, anche nel lessico scientifico, i termini di “trans”, “non binary”, “bisex”. «La capacità del linguaggio di negare mostra la sua potenza molto più di quanto sia capace di creare». Il presidente argentino Javier Milei ha ripristinato nel linguaggio ufficiale termini come “imbecille”, “deficiente”, “ritardato”, “idiota” per riferirsi a persone con disabilità cognitive. E se è vero che il problema primario di una persona con disabilità cognitiva è trovare un lavoro, accoglienza, strutture, Soave si chiede: «Chiamarlo “imbecille” non gli crea un problema?».
La questione è intricata, le riflessioni ampie ma necessarie. E non ancora per tutte queste domande c’è una risposta. Il rischio che, inserire un sistema di norme sia solo un atto formale, esiste. Vallorani, però, è fiduciosa: «Un cambiamento sta avendo luogo». E sta nelle scelte di ognuno. Ogni giorno. Nella consapevolezza che il cambiamento debba essere prima di tutto culturale. Non è cosa nuova: «Già Manzoni voleva imporre dall’alto un modello linguistico – ricorda Sergio -, e Graziadio Isaia Ascoli gli si oppose. La lingua si consolida solo attraverso l’uso, la scolarizzazione, la diffusione della cultura». Da qui la responsabilità per giornalisti, docenti, e cittadini tutti, di scegliere con attenzione le parole.