Oltre 1.500 pratiche di cittadinanza viziate da irregolarità, con accessi illegali ai sistemi informatici del ministero degli Interni e falsificazione dei requisiti necessari per diventare cittadini italiani. L’inchiesta condotta dalla Polizia Postale di Roma, coordinata dalla Procura della Repubblica, ha portato alla luce il modus operandi di una ramificata struttura criminale con, al suo vertice, una dipendente assistente informatica del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione all’interno del Viminale. Il giudice dell’indagine preliminare (gip) del Tribunale di Roma ha così emanato sei istanze di custodia cautelare in carcere, oltre all’iscrizione sul registro degli indagati di 19 persone. La donna è già stata condannata, in rito abbreviato, a 4 anni e 8 mesi di carcere e alla confisca di 49mila euro. I numerosi reati contestati sono: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, favoreggiamento, detenzione abusiva di codici di accesso a sistema informatico, accesso abusivo al sistema informatico SICITT del Dipartimento libertà civili ed immigrazione del Ministero dell’Interno.

“Codice K10” – L’operazione della polizia è stata così ribattezzata, dal nome del codice associato al sistema informatico cui sarebbe stato effettuato l’accesso abusivo con l’obiettivo di alterare la gestione delle pratiche per la cittadinanza. Le indagini sono scattate in seguito alla denuncia presentata al Cnaipic (Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche) dalla Direzione centrale per i diritti civili del Dipartimento libertà civili ed immigrazione, dopo sospette anomalie informatiche. In questo modo è stato possibile risalire a un’articolata rete gerarchica che, dalla dipendente del ministero, si espandeva per coinvolgere dei “procacciatori”, così definiti dagli inquirenti, di stranieri che volevano ottenere lo status di italiani senza averne i requisiti. Tra i diversi “procacciatori”, alcuni titolari di agenzie per il disbrigo di pratiche e servizi per cittadini stranieri e “agenti di commercio” italiani di origine egiziana. Sarebbe stato proprio un fruttivendolo egiziano uno dei cardini di questa organizzazione: il suo negozio, secondo gli inquirenti, era il luogo dove avveniva lo scambio di soldi e pratiche. A seconda della quantità di informazioni da manomettere, una falsificazione poteva arrivare costare più di 1000 euro, cifra poi ripartita tra tutti i membri del sodalizio. Precedenti penali, reddito minimo insufficiente e mancanza di residenza, questi i dati più spesso aggirati e “corretti”.

Le prove – Dato l’utilizzo di sistemi di comunicazione cifrati e telefoni esclusivamente dedicati alle attività illecite, solo il ricorso a intercettazioni ambientali e telematiche ha permesso di rivelare la presunta attività criminale dell’associazione. Da qui, le perquisizioni nei confronti degli indagati e ulteriori verifiche informatiche hanno poi portato alla scoperta di più libri mastri in cui erano documentate le migliaia di pratiche effettuate e i 135.000 euro in contanti provenienti dalle attività corruttive. Alcune delle illecite cittadinanze concesse sono già state revocate con decreti firmati dal presidente della Repubblica; l’opera di smaltimento delle pratiche è destinata a proseguire per tutti coloro che hanno approfittato di questo “servizio”.

Gli indagati – Oltre alla dipendente del ministero, a suo marito e al fruttivendolo egiziano, tutti già in carcere, altre nove persone sono indagate per il loro ruolo attivo all’interno della rete criminale, mentre altri sette soggetti sono stati deferiti per corruzione, tra cui un avvocato del Foro Romano.