«Questo non è il processo a Massimo Bossetti, è la difesa di un’indagine». A riassumere il caso con queste parole è Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, che lunedì 10 luglio presso la corte d’Appello di Brescia ha proseguito la requisitoria in favore del muratore di Mapello, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio e già condannato dalla corte d’Assise di Bergamo all’ergastolo. Un caso che volge verso le battute finali e che sta scrivendo la storia forense per la controversia delle prove.

Il dna – Un caso difficile e la difficoltà è creata proprio da quella che tra quotidiani e tv è stata chiamata la prova “regina”, cioè quella del dna. Una prova che dovrebbe essere schiacciante, ma non sembra esserlo. Non per la difesa. È sempre il test del dna al centro delle discussioni processuali della corte d’assise prima e dell’appello poi. «Attorno a questa prova scientifica ruota il processo e la sentenza di ergastolo», esordisce Salvagni. «Forse tanti non lo sanno ma il 99,999% delle persone hanno lo stesso patrimonio genetico e differiscono solo dal terzo numero dopo la virgola. Th01 è l’unico marcatore che rende diverso Bossetti da altri profili genetici. Quindi scambiare un solo allele significa cambiare persona».

I Ris – Non solo il risultato del test del dna al centro delle polemiche di Claudio Salvagni, ma anche le modalità che hanno portato al nome del suo assistito. «Le macchine usate vanno comunque programmate e gestite da mano umana che, se poco attenta, può sbagliare», prosegue Salvagni «vanno fatti numerose prove per verificarne l’attendibilità  e la ripetitibilità tra cui test positivi, che indicano il nome di chi si sottopone alla prova, e test negativi. Questi ultimi se danno una linea piatta indicano che è stato fatto tutto correttamente, se ci sono picchi, come in questo caso, qualcosa non va. Ma nessuno se ne è preoccupato. Non solo: è stato valutata la compatibilità con il dna nucleare. Quello mitocondriale, che darebbe la certezza, non c’è più. Come si può dare l’ergastolo senza avere dubbi?». Si scalda l’avvocato quando sfoglia slide per slide le immagini che mostrano a giudici e giuria come, a detta della difesa, i Ris di Parma non siano stati precisi e abbiano utilizzato per le indagini kit scaduti che potrebbero aver falsato l’esito.

La discussione – «Abbiamo provato qualsiasi ipotesi ma nulla spiega come il dna mitocondriale di terzi sia rimasto e non quello dell’imputato. Come può sparirne solo uno?», chiede alla giuria, togata e popolare, Salvagni. Poi si sofferma su alcune immagini satellitari che ritraggono il campo di Chignolo di’Isola dove a fine febbraio del 2011 è stato ritrovato il corpo di Yara. Il legale alza la voce e gesticolando chiama l’attenzione dei giurati per dimostrare che si sarebbe dovuta vedere se fosse sempre stata lì. Ma la parte civile, rappresentata dall’avvocato Andrea Pezzotta, salta in piedi e urla nel microfono: «Questa foto non è da satellite, è una taroccata! Si fatica a vedere anche la strada ed è quasi tre metri di larghezza!». Il presidente della corte d’Appello di Brescia, Enrico Fischetti, fatica a trattenere i due difensori che si accusano a vicenda e minacciano di presentare esposti al collega.

Gli animi faticano a placarsi e lo fanno solo quando prende parola Paolo Camporini, avvocato di Bossetti insieme a Salvagni. «Non solo non ci sono prove ma siamo in presenza di mezzi indizi. Il dna è incerto, la data della morte anche ma le celle telefoniche non mentono. Tra vittima e imputato non ci sono mai stati contatti telefonici e le stesse celle non sono mai state agganciate dai due parecchi nello stesso momento e nelle stesse zone. Anzi, quella sera din novembre Yara andava verso nord e Massimo Bossetti verso sud, dalla sua famiglia», dice Camporini che sottolinea come le poche certezze, secondo la difesa, portino lontano dall’imputato. Verso il vero Ignoto1.