Il giorno dopo si sarebbe dovuto laureare. Invece, nella notte tra lunedì 28 e martedì 29 novembre, Riccardo Faggin si è schiantato con l’auto contro un platano nel padovano. Quella che sembrava una tragedia non prevedibile, si sta delineando come un caso di suicidio di un ragazzo che avrebbe mentito alla sua famiglia fingendo di essere sul punto di laurearsi.

La pista del suicidio – La festa di laurea in Scienze infermieristiche all’università di Padova era già stata organizzata. La discussione della tesi era prevista per martedì 29 novembre, ma la notte prima Riccardo Faggin, ventiseienne originario di Brusegana, quartiere alle porte di Padova, è morto in seguito allo schianto della sua Opel contro un albero, ad appena un chilometro da casa sua. Uno dei platani che costeggiano via Romana Aponense, che collega Padova ad Abano Terme. Sull’asfalto non sono stati trovati segni di frenata, la vettura è uscita dritta su una curva. Le ipotesi di un colpo di sonno o un malore improvviso non sarebbero da escludere, secondo gli agenti della polizia stradale, ma la supposizione che si tratti di un atto volontario sembra sempre più verosimile. Infatti, proprio il giorno seguente il ragazzo avrebbe dovuto discutere la tesi. Almeno questo era quello che aveva detto ad amici e famiglia. Secondo le informazioni fornite dall’università invece, Faggin non aveva ancora compiuto il ciclo di studi. Inoltre, il calendario accademico dell’ateneo non prevedeva alcuna sessione di laurea per martedì 29 novembre. Sempre in base alle testimonianze, il ragazzo avrebbe scelto di non far leggere la tesi al padre, perché, diceva, «doveva essere una sorpresa».

Le parole dei genitori – In un’intervista sul Corriere.it il padre di Riccardo, Stefano Faggin, ha raccontato come, probabilmente, il ragazzo «si sentiva in trappola, per una bugia che si portava dietro da mesi». Ha aggiunto che la colpa non sarebbe da imputare al ragazzo, «la responsabilità, semmai, me la sento addosso».
Nell’intervista rilasciata dalla madre di Riccardo, Luisa Cesaron, a La Repubblica, ha dichiarato: «Gli chiedevamo notizie. Gli dicevamo: muoviti. Gli ricordavamo che se non aveva niente da fare sarebbe dovuto andare a lavorare. Sono cose che tutti i genitori dicono. Ci sembrava la normalità. E invece proviamo ora un grande senso di colpa».  La donna ha poi lanciato un appello a genitori e ragazzi: «Vorrei lanciare un appello ai giovani: se avete qualche problema, confrontatevi con i genitori, parlatene. Tirate fuori ciò che avete dentro. Ma vorrei lanciare anche un appello ai genitori: se i figli vi raccontano qualche bugia, non dico di perdonarli subito, ma provate a comprenderli».

Il fenomeno – Il caso, seppur non ancora accertato, di Riccardo, si inserisce in un quadro più ampio. In base ai dati ISTAT in Italia ogni anno si registrano circa 500 casi di suicido tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 34 anni. Si tratta del12% delle morti riguardanti quella fascia d’età. Molti di loro sarebbero studenti. Solo a ottobre 2022 i giovani che avrebbero deciso di togliersi la vita dopo aver nascosto le proprie difficoltà legate al percorso universitario sarebbero due. La pressione e il fallimento legato alla carriera universitaria sarebbero una delle cause più ricorrenti del suicidio tra i giovani. Ne parla un articolo de L’Espresso, in cui interviene Pasquale Colloca, professore associato di scienze dell’educazione all’Università di Bologna: «Il suicidio può essere interpretato come un fenomeno che scaturisce dalla tensione sociale. Quella che si crea tra una meta che viene culturalmente definita come tale, la laurea ad esempio, e le effettive possibilità di raggiungerla può essere un caso. Dietro c’è un’interpretazione utilitaristica dello studio, come strumento per acquisire nozioni e voti, che genera ansia». Come sottolinea il sociologo Colloca e ribadisce anche la professoressa Antonella Curci, ordinaria di Psicologia generale all’Università di Bari: «Non c’è mai solo una causa a motivare gesti così estremi come il suicidio. Sarebbe limitante incolpare l’Università ma certamente la pressione sociale che gli studenti vivono tutti i giorni potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso. Viviamo una società che ci vuole sempre bravi e performanti e questo non è facile da reggere».