ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

«Non è più il tempo di dire sono schiavi ma è il tempo di dire che sono cittadini»: con queste parole mercoledì 24 febbraio il procuratore di Milano Francesco Greco ha annunciato in una conferenza stampa via web che le quattro maggiori società che in Italia si occupano di consegna di cibo a domicilio– UberEats, JustEat, Deliveroo e Foodinho-Glovo – dovranno regolarizzare 60mila rider stipulando con loro contratti di collaborazione e passando quindi, scrive la Procura, da «una prestazione autonoma di natura occasionale a una prestazione di tipo coordinato e continuativo» con «divieto di retribuzione a cottimo». I verbali amministrativi consegnati alle aziende prevedono «la riqualificazione della posizione lavorativa dei rider che risultano avere prestato la loro opera tra il 1° gennaio 2017 e ottobre 2020, con recupero delle somme contributive e dei premi assicurativi». Inoltre, a causa di violazioni in materia di sicurezza sul lavoro, le società di delivery dovranno provvedere al pagamento di ammende per oltre 733 milioni di euro per ottenere l’estinzione del reato. Per evitare il processo le società hanno 90 giorni di tempo sia per adeguarsi in materia di diritto del lavoro sia per sanare le violazioni penali riguardanti la sicurezza dei rider.

L’indagine – La conferenza stampa è stata indetta per fare il punto della “prima fase” dell’indagine sulle condizioni dei ciclofattorini avviata a fine maggio 2020 dalla Procura di Milano coinvolgendo un gruppo interforze (Sezione di polizia giudiziaria della Procura, Ats Milano, Polizia Locale, Ispettorato del Lavoro di Milano, Inps e Inail). L’inchiesta, partita da Milano con l’intervista di centinaia di rider svolta dai carabinieri del Nucleo tutela del lavoro, si è estesa a livello nazionale con un monitoraggio su tutte le province italiane delle modalità di svolgimento del servizio, i rapporti di lavoro e le forme di tutela garantite, sia dal punto di vista della sicurezza su strada che da quello sanitario. Dall’indagine è risultato che quello delle società di delivery è un «sistema che si fonda su una pressione continua sul lavoratore, il quale non può sottrarsi per evitare di essere retrocesso o addirittura espulso dal sistema e quindi di non poter più lavorare», afferma la Procura, secondo la quale l’unica autonomia dei rider «si riduce in realtà ad una scelta delle fasce orarie in cui svolgere la propria attività, scelta che, a seconda dei casi, è condizionata in maniera più o meno ampia dal “punteggio” attribuito automaticamente dal sistema informatico e collegato alle performance (puntualità, rapidità, accettazione degli ordini)». Sono sei le persone già indagate tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza delle quattro società.

UberEats nel mirino – Greco ha poi annunciato l’apertura di un’inchiesta fiscale su UberEats, già finita in amministrazione giudiziaria per caporalato lo scorso maggio e in attesa della decisione dei giudici sulla prosecuzione o meno del commissariamento, inizialmente previsto per la durata di un anno. L’indagine vuole verificare se la filiale italiana del colosso statunitense abbia messo in piedi attraverso il servizio di food delivery «una stabile organizzazione occulta» e trasferisca quindi i suoi guadagni all’estero per evitare di pagare le tasse al fisco italiano. «I pagamenti dei clienti vengono effettuati online ma non sappiamo dove vengono percepiti – ha chiarito Greco – e nel frattempo il rapporto di lavoro dei rider è strutturato sul territorio italiano».

Le reazioni – «L’online food delivery è un’industria che opera nel pieno rispetto delle regole, capace di garantire un servizio essenziale», ha dichiarato Assodelivery, associazione alla quale aderiscono Deliveroo, Glovo e UberEats, in risposta agli esiti dell’inchiesta: «Siamo sorpresi dalle dichiarazioni e stiamo analizzando e approfondendo i documenti che ci sono stati forniti e valuteremo ogni azione conseguente». «Oggi i rider che collaborano con le piattaforme di food delivery operano all’interno di un contesto legale e protetto, che assicura ai rider flessibilità e sicurezza», si legge ancora nella nota di Assodelivery: «Le piattaforme, pur nelle specifiche differenze, hanno operato in questi anni nel rispetto delle normative vigenti, compreso l’inquadramento dei lavoratori e le normative in materia di sicurezza sul lavoro. Non concordiamo dunque con il quadro illustrato oggi». Sulla stessa linea UberEats e Deliveroo, che afferma di essere pronta a contestare i provvedimenti, specificando come «i documenti trasmessi fanno riferimento a vecchi contratti: dal novembre 2020, infatti, i contratti dei rider che collaborano con Deliveroo sono disciplinati da nuovi contratti individuali che fanno riferimento al CCNL Rider (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, Ndr)». Più morbida la reazione di JustEat, che dichiara di aver avviato «approfondimenti interni per effettuare le verifiche necessarie».

I rider «E’ vergognoso che l’azienda per cui lavoriamo non ci tuteli affatto. Prendiamo acqua, vento, freddo e gelo. Ci picchiano, ci derubano e ci deridono ma nessuno fa nulla. Il mio è uno sfogo ma spero serva da lezione per tutti», è uno dei tanti messaggi individuati su Facebook e nelle chat dei lavoratori del delivery dai carabinieri del Nucleo tutela del lavoro. «Sono disponibile 7 giorni su 7, per circa 10 ore al giorno. E in cinque anni che faccio questo mestiere, anche nei mesi più tosti, non ho mai superato i 1000 euro lordi», scrive Giuseppe, 30 anni, che fa il rider a Torino per Just Eat e Deliveroo. «Come faccio ad accontentare entrambe? Faccio i salti mortali, letteralmente. Passo col rosso, vado sul marciapiede. Insomma, corro il più possibile per arrivare prima, perché tutto si concentra nelle stesse fasce orarie, a pranzo e a cena», afferma. E ancora: «Non ce la faccio più – scrive un rider sardo – sbagliano fisso i chilometri e mai a favore nostro, sempre a favore loro: in una consegna dove ho fatto 7,8 chilometri, ne sono stati pagati solo 3 ed è fisso così ogni giorno. Fanno errori del genere su milioni di rider. Fanno miliardi di euro levandoli alle nostre tasche. Non gli bastano le percentuali assurde di fatturato che chiedono ai locali». Testimonianze in forte contrasto con l’esperienza ormai famosa di Emanuele Zappalà, rider di Deliveroo che sostiene di essere appagato dal suo lavoro, con il quale guadagnerebbe una media di 2000 euro al mese (con picchi di 4000). La sua intervista era stata pubblicata il 18 gennaio sul quotidiano torinese La Stampa, sollevando numerose polemiche riguardo la veridicità del racconto, rivelatosi poi impreciso in numerosi dettagli.