«Avevo dieci anni quando sono scesa dalle spalle di mio padre. Non si può stare sulle spalle dei morti». Sono le parole di un monologo teatrale, ma raccontano una storia vera. «E’ la storia di una mia compagna. Recitarla mi emoziona molto, perché, quando lei parla del padre, penso al mio e alla sofferenza che gli sto causando da quando sono in carcere», dice Teresa, detenuta di massima sicurezza dell’istituto penitenziario di Vigevano. Lunedì 29 maggio è intervenuta di fronte agli studenti della Statale all’incontro L’arte della legalità. L’iniziativa, nata all’interno del corso di Sociologia e metodi di educazione alla legalità del professor Nando Dalla Chiesa, è frutto della collaborazione tra l’Università di Milano e il laboratorio teatrale del reparto femminile di massima sicurezza.

Successo oltre le sbarre – Questo laboratorio, affidato al regista Mimmo Sorrentino, ha portato in scena molte storie il cui successo ha superato le mura del carcere. Dai racconti delle detenute è nato L’infanzia dell’alta sicurezza, una pièce che Mario Martone ha voluto in cartellone allo Stabile di Torino. Nello spettacolo donne con un passato di ‘ndrangheta, di mafia o di camorra raccontano l’una l’infanzia dell’altra. «Recitare la storia di un’altra persona ti avvicina a lei, ti aiuta a comprenderne i comportamenti», dice Margherita, una delle interpreti. Le protagoniste sono mogli, madri, sorelle o figlie di boss. Donne che, come ricorda Sorrentino, stanno provando a superare situazioni indicibili per ricominciare.

«Seduta sul cimitero» – «Durante questo percorso ho incontrato una persona che, come si dice nel gergo carcerario, è seduta su un cimitero, per la quantità di crimini che ha commesso. È una donna totalmente schiava del suo cognome, un cognome che nell’ambiente della criminalità è altisonante», racconta il regista, «allora ho deciso di farle recitare La livella di Totò, dove l’altisonante si deve inchinare davanti alla saggezza dello spazzino. Aiutare i peggiori, è questo quello che cerchiamo di fare». Non ci si può illudere di cambiare una persona, ma, come dice lui, bisogna cercare di portare del pulito, dove c’è lo sporco. «Il laboratorio teatrale sconvolge i detenuti, li porta a fare i conti con il proprio passato», spiega il direttore del carcere Davide Pisapia, «in tal senso ha una valenza più forte di un qualsiasi altra attività».

Verso nord – «Grazie al teatro ho fatto cadere quel muro che avevo davanti», racconta Teresa. «Non ci volevo nemmeno provare, poi ho capito che il teatro permette di mostrare come si è dentro. Questa esperienza mi sta aiutando molto», aggiunge Margherita. Entrambe adesso sognano una nuova vita. Quando usciranno, hanno intenzione di trovare un lavoro. A Margherita hanno già promesso un posto come assistente ospedaliera. Si è preparata e ha superato brillantemente l’esame. Vuole finalmente essere autonoma. «Vengo da un posto in cui la donna è concepita solo come moglie e madre», dice, «io sento di non essere più solo quello. Nonostante questo, non abbandonerò mio marito. Si può continuare ad amare un detenuto, così come si può amare un malato». Quando sarà di nuovo libera, si trasferirà al Nord. Solo così i suoi figli potranno studiare e trovare lavoro in un posto che non li giudichi in base al cognome. Anche Teresa non tornerà a Napoli, lì non sarebbe possibile staccarsi da quell’ambiente di criminalità che per tanti anni l’ha imprigionata. Entrambe hanno un’amara certezza: solo lontano dalla loro terra potranno ripartire.