Il Garante della privacy ha messo una pietra tombale sul caso romano del cimitero dei feti. Due le sanzioni: 176mila euro al Comune e 239mila ad Ama, la società municipalizzata che nella capitale si occupa della gestione dei servizi cimiteriali. La vicenda si colloca nell’ottobre 2020, quando alcune donne, che avevano affrontato un’interruzione di gravidanza, scoprirono che sulle sepolture dei feti al cimitero Flaminio erano presenti i loro nomi e cognomi, senza aver mai rilasciato un consenso. Nel provvedimento del Garante viene ammonita, senza alcuna sanzione, la Asl Roma 1.
Il riassunto – Bianche, sbilenche, divise in più lotti. Le croci del cimitero Flaminio riportavano, su targhette apposite, i dati personali delle donne che avevano praticato un aborto. Senza il loro consenso e senza neanche essere informate della sepoltura del feto. La prima persona a scoprire il caso denunciò tutto attraverso un post sui social, come si legge su Repubblica: «Nel momento in cui firmai tutti i fogli relativi alla mia interruzione terapeutica di gravidanza, mi chiesero se volevo procedere con esequie e sepoltura. Risposi di no». Invece il feto fu sepolto insieme a quelli di tante altre madri, di cui comparivano nomi e cognomi. «Non ne sapevo niente, mi sono trovata il mio nome su una tomba», scriveva ancora la donna.
La normativa – I feti vengono sepolti con riti religiosi, al pari di una persona. Lo prevede un regolamento della polizia mortuaria del 1990, che rimanda a un decreto regio del 1939. All’articolo 7 sono previste diverse procedure “di smaltimento” e del “prodotto del concepimento”: per un feto tra le 20 e le 28 settimane di gestazione, non dichiarato morto, «i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale». In altre parole, l’Asl di competenza si occupa della sepoltura anche senza richiesta dei genitori. Al contrario, per i feti di età inferiore alle 20 settimane la sepoltura è facoltativa e la richiesta deve essere compilata dai parenti entro 24 ore dall’espulsione del feto.