Si è uccisa nello scantinato della casa di una zia, a Mugnano, nel Napoletano. Ha attaccato un foulard azzurro a un tubo e si è impiccata. Di pomeriggio. Era il 13 settembre 2016. Aveva 33 anni. Secondo la madre di Tiziana Cantone, quello non fu l’unico tentativo della ragazza di togliersi la vita. Aveva cercato di suicidarsi due volte: nel dicembre 2015, ingerendo dei barbiturici e, tempo dopo, provando a lanciarsi da un balcone. Di lei esistono diverse immagini pubbliche. Quella sorridente, seduta al tavolo di un ristorante, mentre si tiene la testa con la mano sinistra. E quelle di sei video in cui fa sesso mentre qualcuno la riprende. Tiziana ha tentato più volte di far cancellare questi filmati. Ma non c’è mai riuscita del tutto e alla fine ha scelto la morte.
Archiviazione – A più di un anno di distanza dalla morte di Tiziana Cantone, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli Nord ha disposto l’archiviazione dell’inchiesta per istigazione al suicidio. L’indagine, affidata al sostituto procuratore Rossana Esposito, avrebbe dovuto accertare le eventuali responsabilità di terzi del gesto della giovane napoletana. Nessuno però è mai stato indagato, nonostante gli inquirenti avessero sentito più persone. La Procura, che ha effettuato numerosi accertamenti tecnici, come lo sblocco dell’IPhone della giovane, non sembra aver raggiunto risultati significativi. A febbraio, i carabinieri della sezione cyber-crime del Comando Provinciale di Napoli, pensavano di poter trovare nei file audio risalenti alle ore precedenti la sua morte elementi fondamentali che rivelassero dettagli importanti sulle responsabilità del gesto. Ma nulla.
I video hard – Nel maggio 2015, Tiziana Cantone si rivolge alla procura di Napoli, per fare una denuncia. Al magistrato che la ascolta racconta di aver girato alcuni video hard e di averli inviati a persone con le quali, spiega, aveva intrecciato «relazioni virtuali» su alcuni social network. A verbale fa mettere che si trattava di un periodo di «fragilità e depressione». I filmati, in tutto, sono sei. All’inizio, fa i nomi dei quattro uomini cui aveva mandato quelle immagini. Ognuno di loro viene indagato per diffamazione. Si tratta di Antonio ed Enrico Iacuzio, due fratelli, Christian Rollo e Antonio Villano. Di uno di questi, viene indicato anche il nickname che usa su Facebook, Luca Luke. Non fa riferimento a Sergio Di Paolo, il fidanzato quarantenne che abitava con lei. La madre di Tiziana, un’impiegata comunale di 58 anni, però, crede che a spingere la figlia ad avere rapporti con altri e a farsi filmare sia stato proprio lui. E sospetta anche che li abbia diffusi Di Paolo.
L’inizio e i rapporti con altri – Nell’aprile del 2015, quindi, Tiziana accetta di fare sesso con altre persone e consente a farsi riprendere dal fidanzato. In uno di questi filmati, si sente la sua voce dire: «Stai facendo un video? Bravo». Il 25 aprile, un primo video finisce su un sito porno. Cinque giorni dopo, il suo volto e il suo corpo, assolutamente riconoscibili, diventano molto popolari, soprattutto nel Napoletano. Nome e cognome appaiono nei motori di ricerca e direttamente come titoli dei video. La frase, probabilmente rivolta al fidanzato, inizia a diffondersi e a circolare in rete. Ovunque. Scopre di essere finita su siti porno grazie alla telefonata di un amico che la avverte. Guarda le immagini e si riconosce. Scopre forum per adulti in cui si parla di lei, siti di scambisti e gruppi Facebook in cui finisce suo malgrado e molti profili falsi. Lei è dappertutto. Poco tempo dopo, un altro amico la avverte di aver ricevuto, su WhatsApp, una sua foto (tratta da uno dei suoi video).
La richiesta di rimozione – Il 13 luglio, al giudice civile di Aversa, presenta una memoria per chiedere la rimozione di quei contenuti da siti e motori di ricerca. Ammette, anche in questa circostanza, di essersi fatta riprendere «volontariamente e in piena coscienza». Per i pubblici ministeri, però, subito non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito consapevolmente. In questa circostanza conferma i quattro nomi contenuti nella denuncia di maggio. Torna in Procura e fa un’integrazione di quanto detto al magistrato. I pubblici ministeri aggiungono il reato di violazione della privacy, ma non c’è nessun iscritto al registro degli indagati.
La richiesta di provvedimenti d’urgenza – Centinaia di commenti, in Rete, la rinchiudono fisicamente in casa. Non esce più, nemmeno per lavorare. Prova a cambiare città. Si trasferisce prima in Emilia-Romagna, poi in Toscana. Ma nel 2016, decide di tornare in Campania. E nell’aprile di quell’anno chiede provvedimenti d’urgenza e chiede di rimuovere i contenuti. A giugno, la prima udienza. Il 5 settembre, il tribunale di Napoli Nord le dà ragione e contesta a cinque social di non aver rimosso il materiale al momento opportuno.
La negazione del diritto all’oblio – I siti dovranno pagare le spese legali. Ma Google e Yahoo! vengono prosciolti per alcuni errori degli avvocati nell’indagare le società d’appartenenza. La richiesta di un risarcimento è giudicata «inammissibile in sede cautelare». Le viene negato anche il diritto all’oblio, perché «presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali è che questi siano relativi a vicende risalenti nel tempo» e, quindi, in questo caso, «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della comunità».