Gabriele Micalizzi, 34 anni, il fotoreporter italiano ferito lo scorso 11 febbraio in Siria, è tornato a Milano, dove è ricoverato dal 17 febbraio all’ospedale San Raffaele. Due falangi amputate, una frattura al braccio sinistro, la compromissione dell’udito all’orecchio sinistro. Scongiurata però la paura più grande: la lesione al nervo ottico dell’occhio sinistro per il quale erano già intervenuti i chirurghi a Bagdad non appare irreversibile e Gabriele dovrebbe tornare a vedere. Ora le cure proseguiranno a Milano, anche se non si sa ancora quali saranno le operazioni cui dovrà essere sottoposto per recuperare del tutto la vista. «Sta bene», rassicura l’amico e collega Alessandro Sala, «Gabri è quello di sempre. Non si ricorda le dinamiche dell’incidente ma è lui stesso a tranquilizzare tutti noi».

Ragazzo d’oro –  Micalizzi, più di 10 anni passati nelle zone di conflitto, era già stato ferito più volte ma non ha mai perso la passione perché «andare in guerra è la sua vita», racconta Sala. Scattate dalla striscia di Gaza alla Libia, dal colpo di Stato contro Mubarak alla Siria, le sue foto sono state pubblicate dal New York Times al Corriere della Sera. Micalizzi però, tra i fotoreporter, è uno dei più fortunati, un caso più unico che raro. La vittoria del contest Masters of photography di Sky Arte nel 2016 gli fa intascare 100mila euro, lo fa conoscere al di là del fotogiornalismo di guerra e gli permettere di firmare campagne remunerative come quella per Yamamay. Soprattutto, come spesso ha sottolineato lo stesso Gabriele, gli ha concesso il lusso di poter continuare a seguire una carriera, il fotogiornalismo in zona di guerra, che spesso non ha e non dà opportunità, dove la sicurezza economica è un privilegio per pochi.

Una foto scattata sulla striscia di Gaza, dal profilo Instagram di Gabriele Micalizzi

Rischiare la vita per una manciata di soldi – Se Gabriele nel 2008 insieme a un gruppo di amici fonda Cesuralab, oggi Cesura, sotto la direzione artistica del fotografo e presidente dell’agenzia Magnum Alex Majoli, il motivo è in primo luogo economico. Il progetto, racconta ancora Sala, co-fondatore di Cesura, consiste in un collettivo di fotografi indipendenti che condividono spazi, attrezzature e idee per sopravvivere, sia economicamente che artisticamente. In un mercato editoriale che è quasi del tutto scomparso, essere padroni di se stessi significa anche «non perdere quella integrità e qualità del lavoro che altrimenti verrebbero sacrificate per soldi che non arrivano mai». Di Cesura faceva parte anche Andy Rocchelli, fotogiornalista morto nel 2014, raggiunto da colpi d’arma di fuoco insieme a un interprete mentre documentava la guerra in Ucraina. Eppure questo non ha mai scoraggiato Gabriele, «per capire perché devi guardarlo negli occhi quando parla di guerra», racconta sempre Alessandro. Anche molti altri colleghi non si sono mai fatti intimidire ed è grazie a loro se a tutti sembra di aver visto le strade distrutte di Damasco o la vita quotidiana sulla striscia di Gaza. Loro – gli unici giornalisti che meritano di essere definiti «testimoni», li definisce Alessandro – che partono senza contratto e senza la certezza di vedere la propria foto pubblicata e vanno dove il più delle volte sono gli unici cronisti di una realtà difficile.