sportello trans«Avevo 7 anni quando mia madre si accorse che ero diversa, che pur essendo biologicamente un ragazzo mi sentivo una femmina. Mi fece visitare da un dottore, il nostro medico di base a Bisceglie. Lui le disse di farmi vedere in un manicomio dagli psichiatri. Loro prospettarono solo due soluzioni: la lobotomia e il lavaggio del cervello. Se mia madre li avesse ascoltati sarei potuta rimanere un vegetale, perdere la memoria di tutto quello che avevo vissuto e imparato fino ad allora, scrivere, riconoscere le persone, parlare. Lei però non li ascoltò, mi portò via. Sembra assurdo oggi solo pensare che ancora alla metà degli anni ’70 la disforia di genere fosse considerata una “patologia” mentale da guarire negli ospedali psichiatrici con questi metodi». Antonia Monopoli, nata Antonio, racconta così il momento nel quale iniziò a prendere coscienza della propria identità, avviandosi attraverso un percorso difficile, da affrontare senza punti di riferimento e il sostegno di strutture che fornissero aiuto materiale e psicologico.

«A 16 anni ho incontrato la prima figura trans della mia vita» racconta Antonia. «Per me è stata una rivelazione. Era la prima persona che conoscevo a vivere la mia stessa esperienza. Per la prima volta mi sentivo simile a qualcuno. La seguii a Roma scappando di casa, ma ero minorenne e i miei genitori mi vennero subito a prendere per riportarmi indietro». Il momento di svolta è avvenuto quando Antonia aveva diciott’anni. Un medico specializzato spiega a lei e alla sua famiglia che la disforia di genere era una cosa normale. Non c’era nulla di sbagliato, nessuna cura da intraprendere. «È stato un incontro fondamentale. Per la prima volta non ero più considerata pazza. Semplicemente, sentivo di avere un corpo femminile. Non avevo necessità di cure. Potei iniziare ad adeguare il mio aspetto all’idea di me che avevo in testa, nonostante i pregiudizi e le critiche della gente. Piccoli particolari in principio: capelli un po’ più lunghi, giacche leggermente sfiancate. Poi decisi di informarmi per l’adeguamento di sesso».

Ancora oggi, a distanza di più di 30 anni, sono tanti i pregiudizi di cui sono impregnate l’opinione pubblica, la stampa e la televisione. “Finisce con un incidente stradale la lite tra cliente e trans”. O ancora: “Favori in cambio di sesso: sentiti 12 trans”. Sono solo due recenti titoli di articoli di giornale dove la parola “trans” è usata come sinonimo di “prostituta”. Del resto fino a qualche decennio fa e in parte ancora oggi, l’universo transgender in Italia era totalmente ignorato, considerato un problema di cui parlare solo quando incrociava casi di cronaca o gossip. Eppure nel 1982 è stata proprio l’Italia a varare una legge all’avanguardia in Europa che ha riconosciuto legalmente l’importanza della psicologia nell’identificazione di genere. Si tratta della legge 164/82, che consente l’adeguamento dei caratteri sessuali all’identità psicologica e lascia aperta la possibilità di una rettifica dei documenti anagrafici anche in assenza dell’operazione chirurgica.

Il percorso di identificazione sessuale, infatti, non è univoco, e non si svolge per tutti nello stesso tempo e modo. Prima della legge 164, le persone trans erano obbligate ad operarsi perché venisse riconosciuto legalmente il cambiamento di sesso. Senza adeguamento chirurgico, cioè, non potevano essere modificati i documenti, con tutti i problemi che ne derivavano. «Pensate di presentarvi in un’agenzia di lavoro qualche anno fa», spiega Antonia. «Avete un aspetto femminile, eppure sulla carta d’identità risultate con un nome maschile. Credete che avreste mai trovato un impiego? Purtroppo la discriminazione sul luogo di lavoro è molto comune. Molte persone sono viste con sospetto e, anche se magari non vengono licenziate, sono messe nella condizione di chiedere le dimissioni». In questi casi si può cercare la protezione degli avvocati, ma non sempre è possibile. Il mobbing, continua a spiegare Antonia, non è visibile. Spesso è sottile, fatto di offese o piccoli gesti. «Io stessa ne sono stata vittima. Per me la ricerca di un lavoro è stata lunga e complicata, e la discriminazione non è stata per niente velata e sottile».

Negli anni ’90 per una persona trans era molto difficile trovare lavoro. Si finiva per essere ghettizzate. Oggi il rischio è ancora forte, ma non è più così. «A 22 anni mi trasferii a Milano da alcune amiche in cerca di un ambiente nel quale potessi vivere lontana dai giudizi di una piccola città, in cerca poi di persone simili a me. Scoprii che l’unico modo per sopravvivere era la prostituzione. Mi sono trovata così a lavorare sul marciapiede». Era il 1994, Antonia sarebbe rimasta in strada fino al 2002 e in questi anni iniziò ad affrontare il percorso che l’avrebbe portata all’adeguamento di sesso.

La trafila medica e psicologica è molto lunga e attraversa diverse tappe. «Innanzitutto si incontra il medico che compila una scheda biografica del paziente», spiega Luca Rousseau, psicologo e psicoterapeuta. «Serve per valutare la storia della persona, la consapevolezza dei propri bisogni e la stabilità della sua decisione. La seconda tappa è con lo psichiatra cui spetta il compito di verificare la disforia di genere. Accertato che la persona necessita un adeguamento di sesso si parte con la terapia ormonale». Un passaggio delicato dal punto di vista fisico: gli estrogeni e gli antiandrogeni per il percorso male to female, oppure il testosterone per quello female to male, infatti, possono intaccare il fegato, il cuore ed il sangue. Molti, soprattutto immigrati e persone che si trovano ai margini della società, affrontano la terapia ormonale senza essere seguiti da medici. Assumono medicine in dosi massicce, senza alcun controllo. «Bastava che arrivasse l’amica di turno con una pillola per addolcire i fianchi, e gli ormoni si mandavano giù, come se fossero caramelle – racconta Antonia – senza alcun sospetto che facessero male. Ho rischiato una trombosi o una tromboembolia polmonare. Sono farmaci molto pesanti già sotto la guida di un medico. Le cure fai da te possono essere letali».

Dall’inizio del percorso a questo punto, possono passare diversi anni: tutto dipende dalla persona, dal modo in cui reagisce alle terapie ormonali e psicologiche. Per avere il via libera all’operazione bisogna superare una valutazione psichiatrica che attesti che non si è affetti da malattie mentali. Con questa si può presentare una richiesta in tribunale per rettifica sessuale. La sentenza, però, può arrivare anche dopo un anno e mezzo, ma l’attesa non finisce qui. La persona transessuale può rivolgersi, in teoria, a qualsiasi centro per l’intervento chirurgico, che consiste nella decostruzione del pene e costruzione della vagina nel percorso male to female e costruzione del pene in quello female to male. Il problema è che in Italia le strutture che svolgono questi tipi di intervento sono pochissime, anche per le resistenze di alcuni medici a espiantare organi sani. In Lombardia c’è solamente l’ospedale Niguarda di Milano. Così le liste di attesa sono infinite e, anche se in Italia l’intervento di rettificazione chirurgica è passato dal servizio sanitario nazionale, molti si rivolgono a strutture all’estero, in modo particolare in Thailandia.

Per sostenere le persone che si avviano in questo percorso ci sono in Italia alcune strutture. In Lombardia, a Milano, c’è Sportello Trans, fondato da Antonia insieme ad Ala Milano Onlus, un’associazione nata negli anni Ottanta per la lotta all’Aids. Una struttura che ha l’obiettivo di supportare e difendere le persone transgender e transessuali, in un’ottica laica e a-politica, fornire loro informazioni, assistenza psicologica, favorire l’inclusione sociale e l’inserimento e il reinserimento lavorativo. Il lavoro al centro non finisce però qui. C’è l’assistenza a transessuali coinvolte nella prostituzione che cercano aiuto per uscire dal giro, dominato a Milano dal racket brasiliano.

«Nel 2002 ho scoperto i servizi dell’ospedale Niguarda e ho iniziato a prendermi cura di me stessa e del mio corpo», racconta Antonia. «Ho incontrato l’Arcitrans, ed è iniziato così il mio attivismo per i diritti dei gay”. Antonia oggi lavora per aiutare le persone trans a superare i problemi che ha già vissuto, per non lasciarle sole in questo cammino.

A intraprendere questo percorso sono persone di tutte le età. Alcuni iniziano già a 18 anni. Altri a più di 40, 45 anni. Molti hanno famiglia, alcuni hanno anche figli, e per loro il percorso psicologico è molto complesso.

«Qualche anno fa era molto difficile che le famiglie accogliessero un figlio che non si riconoscesse nel proprio corpo», aggiunge Antonia. «Spesso lo mettevano alla porta, per loro era come morto. Oggi le cose sono diverse, qui allo sportello Ala vengono ragazzi di 18 anni accompagnati dai genitori. Perché le famiglie oggi vogliono capire quello che succede ai loro figli, e vogliono essere coinvolte». A loro Antonia racconta la sua esperienza, perché può dare una mano a chi sta attraversando gli stessi momenti di difficoltà. Ma non solo. «Aiutare loro – conclude sorridendo –  permette di prendermi cura del mio corpo. Sono la psicologa di me stessa».

 Angela Tisbe Ciociola e Gabriele Principato