corriere tobagtiSono passati trentacinque anni da quando, alle 11.10 di mercoledì 28 maggio 1980, Walter Tobagi cadde sul marciapiede di via Salaino, a Milano, colpito da cinque colpi di pistola. Era cronista del Corriere della Sera e fu ucciso mentre andava in redazione da un commando di sei terroristi della formazione “28 marzo”. Aveva 33 anni, una moglie e due figli piccoli.

Alle 10, davanti alla targa in via Salaino, il Comune di Milano gli ha reso omaggio deponendo una corona alla presenza della figlia Benedetta. Alle ore 18 nella Sala del Grechetto di via Francesco Sforza 9 ci sarà l’inaugurazione del Fondo librario donato alla Biblioteca Sormani dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia e dal Master in giornalismo dell’Università Statale di Milano.

Al Corriere dal 1972, Tobagi era un cronista attento a capire il suo tempo, convinto che la missione di un giornalista fosse la difesa della verità e la formazione dell’opinione pubblica. Le sue inchieste erano precise, rigorose, accurate. Come inviato speciale sul fronte del terrorismo e come cronista politico e sindacale, aveva denunciato la connivenza con le Brigate Rosse nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. In anni in cui i brigatisti sembravano invincibili, Tobagi si impegnò per sfatarne il mito e per descrivere in modo lucido e professionale il fenomeno del terrorismo. “Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili. Guardare in faccia la realtà significa non nascondersi il proselitismo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche”, aveva scritto sul Corriere un mese prima dell’agguato. Fu il suo ultimo articolo sul tema del terrorismo.

Tobagi lavorava in prima linea ed era consapevole di correre un grave pericolo, pur non avendo mai accettato una scorta. Sapeva di essere nel mirino dei terroristi. Lo sapevano tutti, da quando – nel gennaio del 1979 – in una valigetta appartenente a un terrorista era stata trovato un dossier su di lui. La sera prima dell’agguato, Tobagi aveva presieduto un incontro al circolo della stampa di Milano. Parlando delle responsabilità dei cronisti di fronte all’offensiva delle bande armate si era chiesto: “Chissà a chi toccherà la prossima volta”.

Dal 1978 Tobagi era Presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti e consigliere della Federazione nazionale della stampa. Rappresentava la corrente riformista ed era osteggiato dalle fazioni più di sinistra, ma anche all’interno dello stesso Corriere della Sera. Il giornalista era in disaccordo da qualche tempo con la linea del quotidiano ed era preoccupato per la scalata alla proprietà da parte del banchiere Roberto Calvi.  All’epoca non era ancora venuta a galla la verità sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli, ma Tobagi aveva intuito il pericolo per la libertà di stampa rappresentato dai gruppi di potere che ruotavano attorno a via Solferino e aveva organizzato convegni e tavole rotonde per denunciarlo.

La moglie Stella, in un intervista a La Stampa nel 2010, ha rivelato: “Penso che furono i terroristi a decidere di uccidere Walter, ma ho il sospetto che qualcuno li abbia lasciati fare. Penso alla P2. Ci sono molti elementi che me lo fanno credere. Ci fu senz’altro un’atmosfera di grande ostilità, una campagna velenosa. Ma non credo che il mandato a uccidere sia partito da via Solferino, né che lì dentro ci siano stati dei complici”.

Le indagini sull’omicidio Tobagi portarono, nel 1983, alle condanne contro i sei componenti del commando. Molti ottennero sconti di pena per aver collaborato con la giustizia. Marco Barbone, il leader del gruppo, che sparò probabilmente il colpo mortale, fu condannato a 8 anni e nove mesi ed ebbe da subito la libertà provvisoria. Paolo Morandini, anche lui immediatamente “pentito”, ebbe la stessa condanna. Mario Marano, che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti a 12 in appello. Questi “sconti”, giustificati dalla legge sui pentiti, generarono grande indignazione nell’opinione pubblica. Solo uno degli assassini, Francesco Giordano, dimostrò un reale pentimento, scontò la pena per intero e quando ebbe la libertà vigilata incontrò la famiglia di Tobagi per chiedere perdono.

Simone Gorla