Non è stato un attentato né un’esecuzione. La ricostruzione della Farnesina della morte di Mario Attanasio, Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustafà Milambo parla chiaro. Intorno alle 10.15 il convoglio del World Food Programme (Wfp) su cui viaggiano l’ambasciatore italiano e il carabiniere viene bloccato da colpi di arma da fuoco all’altezza del villaggio di Kanya Mahoro sulla N2, l’autostrada che partendo dalla città di Goma costeggia il confine tra Congo e Rwanda. Alcuni colpi in aria, le macchine si fermano, probabilmente in queste fasi viene ucciso l’autista congolese. I due vengono fatti scendere, portati nella foresta a forza. Richiamata dagli spari, una pattuglia di ranger del parco del Virunga, forse insieme ad unità dell’esercito, arriva sul posto, nasce uno scontro a fuoco: Iacovacci muore subito. Attanasio, ferito all’addome, poco dopo. Le Forze Democratiche per la liberazione del Rwanda, uno dei gruppi di etnia hutu attivi nella regione, smentisce il coinvolgimento, ma, secondo il governo di Kinshasa, restano i principali indiziati.

Ipotesi fumose – L’autopsia eseguita al Policlinico Gemelli di Roma conferma la versione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Quattro colpi di Ak-47, due per ciascuna delle vittime. Iacobacci è colpito al collo e al fianco, Attanasio al ventre. Non esattamente i punti dove si spara quando si fa un’esecuzione. Soprattutto, se la versione della Farnesina non cambierà, l’ipotesi del fuoco amico acquista di consistenza: I ranger tentano di liberare gli italiani, parte la sparatoria, quando i colpi cessano Iacovacci e Attanasio sono morti:  ma ciò non vuol dire che i proiettili letali siano stati esplosi dai Kalashnikov dei guerriglieri.
La perizia medica oltre non può andare, anche perché sia le forze di sicurezza congolesi che buona parte dei 160 gruppi armati (almeno 120 attivi nella regione del Nord Kivu) utilizzano lo stesso tipo di fucile d’assalto. Si aspetta il risultato della perizia balistica che, stabilendo (si spera) la distanza da cui sono stati esplosi i colpi, potrà dare indicazioni sui responsabili. Difficile si arrivi comunque a un risultato certo. Di Maio ha comunque richiesto un’indagine del Wfp e delle Nazioni Unite, come ha dichiarato il 24 febbraio alla Camera.

La N 2 – Ma i punti oscuri non si fermano qui. Primo, la strada. Giulio Sapelli, consigliere della fondazione Eni intervistato da IlSussidiario.net puntualizza: «Nemmeno la polizia, se non è costretta, attraversa la foresta in quel tratto. È forse la strada più pericolosa del mondo. Non basta una jeep. Nemmeno un paio di veicoli del World Food Programme. Serve una colonna armata». Quella strada è la National Road 2 (N2) e dalla città di Goma taglia l’area più pericolosa del continente nero. Proprio da Goma nel 1998 partì la ribellione dei tutsi Banyamulenge, che nel 1998 diede vita alla cosiddetta “guerra mondiale africana”, un conflitto che in tre anni fece circa mezzo milione di morti. La regione è quella del Nord Kivu, tagliata dalla N2. Negli ultimi 90 giorni qui ci sono stati 417 incidenti violenti, per un totale di 145 morti.

 

Una mappa della regione del Nord Kivu. I punti in blu rappresentano le morti violente, quelli in verde i rapimenti e i in arancione gli stupri. Si tratta di una zona di appena 140×80 km2. (Mappa di Kivu Security Tracker, elaborazione di Francesco Dalmazio Casini)

Il Nord Kivu – Il convoglio del World Food Programe su cui viaggiava Attanasio non aveva scorta armata, non era composto da vetture blindate, nessuno indossava l’auricolare di sicurezza e non era stato allestito nessun ponte radio per monitorare la missione. Attanasio si stava recando nel villaggio di Rutshuru dove avrebbe supervisionato la consegna di aiuti alimentari nelle scuole locali. Era arrivato a Goma tre giorni prima. Sembra che il Wfp avesse dichiarato la zona “sicura anche senza scorta”. La stessa zona che dal 2017 ha registrato più di 4200 vittime, come riporta il Kivu Security Tracker. Per tutte le agenzie che si occupano di monitorare la sicurezza del personale diplomatico, la zona oscilla tra l’essere la prima o la seconda più pericolosa del pianeta, a pari merito con l’Afghanistan (e sulla buona strada per un tragico “sorpasso”).

Zona di guerra – Un’intervista ad un analista internazionale pubblicata su Repubblica fa il punto delle cose che non tornano nella ricostruzione dell’assalto. Un’uscita del personale diplomatico in una zona di guerra (si legge «perché così deve essere considerata quella zona della RDC») deve essere concordata con la Farnesina. Su questo Roma ancora non ha dato conferme o smentite. Ma serve anche l’autorizzazione della Agenzia Onu sulla sicurezza, che pare sia arrivata direttamente da New York. Perché? Il consulente intervistato non riesce a spiegarsi la luce verde a procedere, anche perché le autorità congolesi avevano informato che quella era una zona pericolosa.

Senza scorta – E poi c’è il problema della scorta. Accanto ad Attanasio non c’erano i caschi blu della missione Monusco (la missione ONU di peacekeeping attiva nella regione). Non è chiaro nemmeno se il governo di Kinshasa avesse dato l’autorizzazione per una scorta, dunque se fosse stata chiesta dall’Ambasciata. Viaggiare con un solo uomo armato (solo di una pistola), il carabiniere Iacovacci, è consigliabile secondo il protocollo solo per brevi commissioni senza uscire dalle città in quella zona. Quando si esce il dispositivo di sicurezza minimo prevede almeno il giubbotto antiproiettile (che i due, stando alle foto, non indossavano). Secondo l’agenzia Agi poi, i mezzi non erano blindati (le foto con i vetri in frantumi, d’altronde, parlano chiaro), semplici Land Cruiser con i simboli azzurri delle Nazioni Unite sulle fiancate. Soprattutto si trattava di appena due macchine.

Congo senza pace – Per il momento si attende il resoconto di Rocco Leone, unico italiano testimone dell’assalto come membro del Wfp, che viaggiava su uno dei veicoli. Per Sapelli la versione diffusa non torna, si tratterebbe di una leggerezza ingiustificabile: «La Farnesina smentirà. Un ambasciatore italiano non può averlo fatto. Sono certo che le cose sono andate diversamente. Cosa è successo in quel momento tragico dobbiamo ancora saperlo». «La Farnesina – aggiunge – smentirà una fake news e ci dirà come sono andate le cose». Intanto nella zona di Beni, il 23 febbraio, un attacco dell’organizzazione ribelle Forces dèmocratique allièes ha portato ad altri 13 morti, di cui 12 civili. In un pezzo di Africa che molti analisti reputano tutt’altro che «sicuro».

Foto in evidenza: “Exercise Kwanza Angola 06-2010 (7)” by US Army Africa is licensed under CC BY 2.0