Walter Tobagi con Eugenio Montale (Archivio Corriere) (Questa didascalia è stata corretta il 31 maggio, ci scusiamo con i lettori)

Cosa ricorda di quel 28 maggio 1980 e dei giorni successivi all’assassinio di Tobagi?
«Ricordo la telefonata che mi fu fatta al mattino presto da un collega, molto amico di Walter, che era stato avvertito quasi subito. Ricordo il momento in cui mi precipitai a casa di Walter. L’immagine più triste che ho è l’ingresso a casa sua, la disperazione della moglie. Quello fu un momento estremamente toccante. Per quanto riguarda i giorni successivi furono giorni di grande commozione in tutta la redazione. A quei tempi era una redazione abbastanza divisa dal punto di vista sindacale. C’erano degli scontri di idee molto forti tra le diverse componenti. Walter era il presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti e rappresentava una di queste. Ma il giorno della sua morte fu un giorno di dolore per tutta la redazione e per tutti giornalisti. Al di là di ogni idee e di ogni passata divergenza. Ricordo molto bene la stanza di Walter al Corriere della Sera, poi scomparsa nella ristrutturazione del palazzo. Ricordo i fiori che furono portati spontaneamente da decine di colleghi sulla sua scrivania».

Tobagi aveva solo 33 anni quando fu ucciso, ma era già uno dei giornalisti più stimati di’Italia. Lei aveva 24 anni all’epoca ed era un giovane cronista. Come lo vedeva?
«Ero appena entrato al Corriere della Sera, sono arrivato il 15 maggio 1978. Ero il più giovane. Trovai una redazione fatta di grandi professionisti ma di professionisti “datati”. Pur essendo uno dei più giovani, Walter era già un inviato importante con una storia importante alle spalle. Fu uno dei primi ad accogliermi. Avevamo anche delle amicizie in comune. In quei tempi, al Corriere, c’era una sana e bellissima abitudine: il nuovo entrato veniva accompagnato da uno o due colleghi della redazione e presentato a tutti i colleghi. Era una sorta di rito che durava più o meno una giornata, molto bello e molto utile. Walter fu uno dei miei accompagnatori. Lo vedevo oltre che come un collega giovane in una redazione avanti con gli anni, come un collega importante e che poteva insegnare tante cose».

E quel primo giorno le disse una cosa particolare…
«Ebbi da lui una spiegazione di come si lavorava al Corriere della Sera, della realtà della redazione. Mi disse una cosa semplicissima, ma che è rimasta nel tempo esattamente così: “Guarda, è una redazione molto particolare. Ci sono colleghi magari un po’ presuntuosi, un po’ invidiosi. Ci sono sentimenti di rivalità, anche eccessiva. Ma c’è una virtù che unisce tutti i giornalisti del Corriere, nonostante le differenze di idee: sono dei grandi professionisti”. Questo me lo ricorderò per sempre».

Oltre al primo giorno in via Solferino, c’è un ricordo o un aneddoto personale di Walter Tobagi legato alla vita da redazione?
«Purtroppo ho potuto conoscere Walter bene in redazione solo per due anni. Nel corso di questi due anni ovviamente gli aneddoti sono tanti. Sono molto legato al mio primo giorno in via Solferino. Ma ricordo anche che qualche mese prima dello scandalo P2, che coinvolse il Corriere della Sera, in un incontro che facemmo alla sera con Walter e altri colleghi, lui ci mise in guardia: “Ho la sensazione che all’interno del Corriere della Sera si muova una loggia massonica”. Lo ricordo perché dopo mesi venne fuori lo scandalo che tutti conosciamo. Evidentemente lui nella sua attività, non solo professionale ma anche sindacale, aveva avuto sentore che nella redazione e nell’azienda si muoveva un’entità oscura».

Negli anni in cui ha cominciato la sua carriera nel mondo del giornalismo, c’era qualcuno che diceva “voglio diventare come Walter Tobagi”?
«Certamente, per due motivi: innanzitutto era un giornalista giovane e, in un ambiente che non era affatto giovane come la redazione del Corriere della Sera ma non solo, avere una figura di riferimento giovane era importante; poi soprattutto perché Walter aveva alle spalle una storia importante da intellettuale e cronista. Poi c’erano i suoi articoli a dimostrare quanto fosse bravo. Era un giornalista che sapeva unire le virtù della riflessione dell’attenzione, della scrupolosità e della precisione. Quindi, era sicuramente un punto di riferimento per me, ma anche per tutti i giovani professionisti che si affacciavano alla professione».

Se Walter Tobagi lavorasse nel presente, quali sarebbero i temi che più lo appassionerebbero?
«Sarebbe sicuramente molto attento e incuriosito e coinvolto nell’approfondire le trasformazioni tecnologiche, nello studiare il mondo dei social network. Credo che sarebbe estremamente impegnato sul fronte della nostra deontologia, perché lui credeva in un giornalismo serio. Un giornalismo di verità, non come verità assoluta ma come capacità del giornalista di capire e approfondire. Oggi sarebbe sicuramente impegnato in una battaglia di giornalismo serio e puntuale. Sarebbe in prima fila».

 

Il giornalismo odierno è molto veloce e interattivo, una trasformazione portata dal web, dai social network e dal citizen journalism. Come affronterebbe queste dinamiche?
«Non gli piacerebbe stare lontano da questo mondo. Non era un uomo che rifiutava i cambiamenti. Li accettava e vi partecipava. Quindi credo che sarebbe assolutamente impegnato nell’approfondire, nel capire e nell’essere anche partecipe. Non ha mai avuto un atteggiamento di chiusura nei confronti dei cambiamenti tecnologici. Al contrario: era un giornalista giovane e sarebbe un giornalista giovane ancora oggi».

Che reazione avrebbe davanti alla mole di fake news che circolano attualmente?
«Sarebbe inorridito. Questo determinerebbe in lui la volontà di essere più preciso e anche più severo. Sarebbe sicuramente protagonista di una grande battaglia di verità di denuncia, perché lui è sempre stato un partigiano del giornalismo serio. Il problema delle fake news c’era anche allora, c’è sempre stato. Non nei termini, nelle forme e nelle quantità di oggi, ma sicuramente anche all’epoca c’era un problema di notizie false o di notizie manipolate che venivano fatte circolare. Walter, sia come presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, quindi sindacalista-intellettuale, sia come inviato del Corriere della Sera, ovvero cronista-intellettuale, cercherebbe di coinvolgere il numero più alto di colleghi per fare una battaglia di verità contro il vizio del diffondere notizie false o manipolate».

Tobagi era molto pacato, imparziale e analitico, caratteristiche che si ritrovano tutte nei lavori che ci ha lasciato. Riuscirebbe ad affrontare un dibattito in un talk show televisivo, l’emblema del giornalismo urlato di oggi?
«Lo stile di Walter era esattamente l’opposto di quello che vediamo oggi nelle trasmissioni televisive, e non solo. Non era un uomo che amava la ribalta e l’uso di toni sopra le righe. Preferiva affermare con molta calma, ma anche con molta autorevolezza, il suo pensiero. Era un uomo che non amava prevaricare gli altri. Anche nelle singole discussioni non amava intromettersi, interrompere. Ascoltava e aveva il rispetto del pensiero espresso da chi gli stava davanti. Sicuramente qualche difficoltà la troverebbe in un talk show, ma sono certo che con la sua autorevolezza e il suo stile sobrio sicuramente sarebbe stato in grado di affrontare le arene televisive».

Se dovesse indicare un Walter Tobagi di oggi, chi sceglierebbe?
«Sarebbe fin troppo facile dire collega A, collega B o collega C. Credo che ogni giornalista abbia un suo timbro particolare. Il timbro di Walter non è replicabile. Come non è replicabile il timbro di altri grandissimi giornalisti, da Indro Montanelli a Enzo Biagi. Se vogliamo individuare delle virtù comuni in questi grandi giornalisti, direi che quelle della scrittura, della comprensione, della curiosità, della serietà, queste le ritroviamo in non pochi giornalisti oggi. Ci sono molti bravissimi giovani colleghi che magari ancora non hanno un nome, ma nei quali si possono ritrovare le qualità dei grandi giornalisti di una volta, a cominciare da Tobagi».

Quali sono i principali insegnamenti che lascia ai giornalisti di oggi Tobagi?
«Walter è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande intellettuale. Gli insegnamenti che ci lascia sono quelli di un giornalismo serio, profondo. Di un giornalismo che rifiuta la spettacolarizzazione, che impone al giornalista di continuare a studiare, capire e raccontare in modo corretto e onesto. È stata la sua grandezza ed è la grandezza di tutti i giornalisti che hanno fatto la storia del giornalismo, in Italia e non solo».