«Minchia che pigna che gli ho dato». È solo una delle frasi emerse nel corso dell’indagine su Alessandro Migliore, poliziotto veronese, che è stata resa pubblica il 6 giugno. L’uomo si riferisce a una persona che lui e un collega avrebbero picchiato mentre si trovava in stato di fermo in questura. Insieme ad altri quattro colleghi, Migliore è al momento agli arresti domiciliari. Le accuse sono di tortura, lesioni, falso, omissioni di atti d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio. Per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, «Non ci sono solo “mele marce” ma Verona dimostra che non c’è, almeno ancora, un ‘sistema (del tutto, ndr) marcio’». Perché questi casi arrivano alla luce.

La questura di Verona (Ansa/ Filippo Venezia)

Il caso – Nell’agosto del 2022 Alessandro Migliore, 25 anni, era stato già indagato: quella volta per aver fatto una perquisizione in modo troppo frettoloso, sembra perché Migliore fosse legato da rapporti personali con dei parenti dei perquisiti. Ora invece, è coinvolto nel caso delle violenze avvenute nella questura di Verona. Dalle intercettazioni sono emerse conversazioni con la fidanzata in cui Migliore raccontava di botte e torture ai danni delle persone fermate in questura, per lo più straniere. Tra l’estate del 2022 e la primavera del 2023, grazie a microspie e microfoni nascosti, sono venuti alla luce almeno 6 casi di violenza, sempre dentro i cancelli della questura. «Dovevo andare in bagno, un agente mi ha detto di farla per terra. Poi mi ha intimato di buttarmi nella mia pipì»: lo ha raccontato Nicolae Daju, un uomo rumeno fermato in ottobre. Era al bar con degli amici, i poliziotti lo hanno prelevato senza dare spiegazioni e portato in centrale. Lì, sarebbe stato picchiato e gli avrebbero spruzzato dello spray al peperoncino negli occhi.

“Mele marce” – Questo caso si aggiunge alla recente denuncia di una donna trans di 42 anni, che alla fine di maggio è stata colpita con calci e manganellate da tre agenti della polizia locale di Milano mentre si trovava in zona Bocconi. La scena è stata ripresa. Sembra che i vigili fossero intervenuti a seguito di una segnalazione. Anche in questa situazione la donna, di origini brasiliane, era stata attaccata con uno spray urticante. Un altro caso che ha riaperto il dibattito sulle cosiddette “mele marce” del sistema di polizia. Ilaria Cucchi, senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra e sorella di Stefano, un’altra vittima della violenza delle forze dell’ordine, ha rivolto un’interrogazione parlamentare.

Stefano Cucchi insieme alla sorella Ilaria (Ansa)

Stefano, Federico e gli altri – Stefano Cucchi era stato fermato dai carabinieri a Roma nella notte del 15 ottobre 2009, in possesso di hashish. Sottoposto a custodia cautelare in carcere, la sera dopo l’arresto era stato portato nell’area detentiva dell’ospedale Fatebenefratelli, presentando lesioni ed ecchimosi alle gambe, al volto, all’addome. Sei giorni dopo Cucchi era morto, senza che la sua famiglia fosse riuscita ad avere alcun contatto con lui dal momento dell’udienza di convalida della custodia cautelare. L’iter giudiziario è durato tredici anni, tra inchieste, depistaggi, processi conclusi e fascicoli riaperti, e ha infine accertato che Cucchi era stato picchiato a morte dai carabinieri. Prima di lui, un altro caso aveva richiamato l’attenzione sulle forze dell’ordine: nel settembre del 2005 un giovane di 18 anni, Federico Aldrovandi, era stato fermato da quattro agenti di polizia a Ferrara, dove era rientrato dopo una serata in un locale bolognese. Intervenuti per una telefonata di un’abitante della zona che sosteneva ci fosse un uomo in stato di agitazione, gli agenti avevano colpito Aldrovandi con i manganelli, e l’avevano poi immobilizzato a terra, schiacciandogli il torace fino a ucciderlo. Anche qui il processo fu rallentato da depistaggi, ma si concluse con la condanna dei poliziotti, che poi beneficiarono dell’indulto. Continua invece a cercare la verità sulla morte di suo padre Rudra Bianzino: Aldo, falegname, nell’ottobre del 2007 era stato prelevato dalla polizia insieme alla compagna, nel suo casale in Umbria. Coltivava delle piantine di cannabis, che sosteneva fossero a uso personale. I due avevano passato la notte in celle separate, e al mattino la donna si era sentita dire che avrebbe potuto vedere il compagno dopo l’autopsia. Causa dichiarata della morte di Bianzino: un aneurisma. Il medico legale di parte, tuttavia, trovò sul suo corpo lesioni a costole, milza e fegato. Undici anni dopo, il figlio di Aldo ha chiesto di riaprire il caso in base a un nuovo esame che ha stabilito che i danni sugli organi interni erano avvenuti contemporaneamente al danno cerebrale, e non successivamente. Tra i nomi che riecheggiano quando si parla di abusi da parte delle forze dell’ordine, c’è anche quello dell’ex calciatore Riccardo Magherini, schiacciato a terra dai carabinieri a Firenze e quello di Giuseppe Uva, morto per arresto circolatorio durante un Tso (trattamento sanitario obbligatorio). Poi ancora Roberto Rasman, affetto da schizofrenia paranoide e morto in casa sua per arresto respiratorio, mentre si trovava ammanettato e immobilizzato a terra. I quattro agenti presenti in quella circostanza sono stati condannati a sei mesi per omicidio colposo, mentre quelli coinvolti nei casi di Magherini e Uva sono stati assolti. Tra il 2021 e il 2022 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha chiesto di riaprire i due processi.