C’è chi avrebbe superato lo spazio e la luce per non farlo invecchiare. Franco Battiato è morto a 76 anni nella sua casa di Milo, alle pendici dell’Etna, circondato dall’affetto dei familiari e dal mare di Sicilia all’orizzonte della finestra. A darne l’annuncio il fratello Michele, che lo ha assistito fino all’ultimo. Battiato era malato da tempo di una sindrome degenerativa, anche se sulle sue condizioni di salute si è sempre mantenuta la più stretta discrezione: nel 2018, dopo un paio di infortuni domestici, il ritiro dalle scene. Cantautore tra i più celebri di sempre, le sue note hanno accompagnato tre generazioni di italiani, spaziando dall’avanguardia colta al rock. Artista geniale e poliedrico, a tratti visionario, regista e pittore, affascinato da esoterismo e misticismo orientale. Un viaggiatore tra le frontiere dei linguaggi musicali, che più di tutti ha compreso il potere sciamanico del suono nel rappresentare miti e profezie universali.
Gli inizi con Gaber – Nato nel 1945 a Jonia, comune del catanese che al termine della guerra venne diviso tra Giarre e Riposto, Battiato si trasferì nella Milano del boom economico a 19 anni. Orfano di padre, iniziò a muovere i primi passi artistici proprio all’ombra del Duomo, entrando in contatto con il grande cantautorato italiano: dapprima le esibizioni al “Club 64”, assieme ad artisti del calibro di Renato Pozzetto, Paolo Poli, Enzo Jannacci e Bruno Lauzi. Poi l’incontro spartiacque con Giorgio Gaber: visto sul palco questo giovane siciliano dalle movenze robotiche, il “Signor G” lo segnalò alla casa discografica “Jolly” per il suo primo contratto. I primi anni furono difficili: molta avanguardia, troppa sperimentazione per un Paese ancorato ai dogmi della musica leggera, ancora allergico alle sonorità elettroniche. Il singolo Fetus venne censurato: colpa della copertina, giudicata troppo spinta. Con l’album Pollution si iniziano a scorgere quelle contaminazioni tra elettronica, rock e filosofia orientale che sarebbero diventate il suo marchio di fabbrica. Un mix allucinogeno per l’epoca, ma Battiato non se ne curava: chi lo conosceva imparò ad amarlo.
La consacrazione – Dopo avere alternato per oltre un decennio avanguardia e musica pop, nel 1981 arriva la consacrazione: «Ho passato gli anni ’70 a fare vocalizzi ed esperimenti. Poi ho deciso di avere successo. Mi sono chiuso un mese in un garage a Milano, e ne sono uscito con La voce del padrone». Sette canzoni rivoluzionarie (tra cui Bandiera Bianca e Centro di gravità permanente) che fondevano i nuovi principi dell’elettronica a testi orecchiabili ma coltissimi, depositari di un brutale attacco al consumismo dell’epoca, a quei “falsi miti di progresso” già denunciati in Patriots. La rivista Rolling Stone lo inserì tra i 100 album più belli del secolo: fu il primo a superare il milione di copie vendute in Italia, al netto delle “meccaniche celesti” e dello “shivaismo tantrico di stile dionisiaco” a cui si riferiscono i testi. Da quel momento in poi la carriera di Battiato divenne un viaggio lungo “le vie che portano all’essenza” all’esplorazione di “mondi lontanissimi”: l’antica Roma, Atlantide, i campi del Tennessee. La Prospettiva Nevskij. Oltre, ovviamente, alla sua Sicilia. Tra echi di misticismo e danze sufi, il cantautore catanese riuscì a elevare la musica pop a virtù dello spirito.
Un asceta pop – «Ogni mattina mi sveglio alle tre e mezza – raccontava Battiato – dopodiché vado in veranda e medito per almeno due ore. Il profumo dei gelsomini e la vista del mare mi tonificano completamente». Una complessità trasferita nei suoi versi: grazie a lui gli italiani hanno familiarizzato con i gesuiti euclidei pur senza sapere chi fosse Gurdjieff e ammirato la furbizia dei contrabbandieri macedoni. Hanno letto codici di geometria di esistenziale nel volo degli uccelli e forse dedotto che un imbianchino fosse più importante di Le Corbusier. Un asceta pop che tuttavia ha trovato modo di spaziare dal sacro al profano: celeberrima, in Povera Patria, la sua invettiva contro i governanti dell’epoca, definiti «perfetti e inutili buffoni», quasi a presagire l’imminente ciclone di Tangentopoli. Il suo impegno civile lo portò a diventare anche assessore alla Cultura della giunta Crocetta, assieme al fisico Antonino Zichichi: un’esperienza breve, ma lunga abbastanza da persuaderlo che «in politica non si può fare niente».
Gli ultimi anni – Le sue collaborazioni furono molte e memorabili: Milva, Caterina Caselli e soprattutto Alice, con cui vinse l’Eurovision nel 1984 con I treni di Tozeur. Fu però l’incontro con il filosofo nichilista Manlio Sgalambro a restituirgli estro creativo, esasperando la componente intellettuale dei suoi versi: proprio con Sgalambro compose nel 1996 La cura, un elogio dell’amore ultraterreno che in molti hanno definito «il testo perfetto». Negli ultimi anni si rifugiò nell’eremo catanese di Milo, all’ombra dei ciliegi, i suoi “ombrelli cosmici”, come amava definirli. Si dilettò nella pittura e diresse due film, poco apprezzati dalla critica. Dalla morte di Sgalambro nel 2014 Battiato divenne sempre più solo: già malato da tempo, nel 2019 pubblicò il suo ultimo album, Torneremo ancora, quasi un testamento spirituale. «La morte non è fine e nemmeno inizio – spiegava – è solo un passaggio da una dimensione a un’altra».