Con il premio Nobel alla letteratura nel 2016 ha tracciato uno spartiacque nella storia della musica. E anche a cinque anni di distanza dal quella data, rimane sulla cresta dell’onda senza farsi scalfire dall’età. Lunedì 24 maggio Bob Dylan ha compiuto 80 anni. Ma nello spirito il “menestrello del rock” pare più che mai Forever Young, come recita la sua celebre canzone del 1974. Dal Minnesota a New York, dai successi di “Blowing in The Wind” e “Knocking on Heavens Dooralla crisi degli anni ‘80, la vita e la carriera del cantautore americano.

La storia di un viaggio – Quella di Robert Allen Zimmerman, il vero nome dietro all’icona Bob Dylan, è la storia di un continuo viaggio: quello che agli inizi del Novecento condusse la sua famiglia ebrea dall’Ucraina e dalla Lituania fino a Duluth, nel Minnesota, per sfuggire dalle persecuzioni antisemite; e poi il viaggio che proprio Dylan ha intrapreso da Hibbing, il luogo natale della madre dove ha vissuto l’infanzia, fino a New York, la città che ha consacrato il suo talento. Appassionato di musica sin da bambino, cresce ascoltando alla radio inni blues, country e rock and roll. Dopo le prime strimpellate nei locali cittadini, arriva la proposta Woody Guthrie, tra i più grandi interpreti del genere folk: è lui che, intuendone il talento, lo prende sotto la sua ala e lo porta alla ribalta nella Grande Mela. Sarà proprio Dylan a raccoglierne l’eredità, diventando famoso e discusso presso i critici per quella voce rugginosa divenuta uno dei suoi marchi di fabbrica. Ma soprattutto catturando l’attenzione della futura amante nonchè amica di sempre, Joan Baez. Figure di spicco, entrambi, del movimento per i diritti civili, quello tra i due fu un sodalizio artistico vincente: così come Dylan è debitore nei confronti della Baez per il successo internazionale, verso il quale lei, già famosa, gli spianò la strada,, è altrettanto vero che a fare la fortuna dell’artista furono, da subito, le decine di reinterpretazioni di alcuni dei suoi primi brani ad opera di Spirit, Hollies, Turtles e più avanti Jimi Hendrix. La metà degli anni sessanta segna l’approdo al rock e all’elettrico, che nel giro di un decennio lo porterà a successi come “Bringing All Back Home”, “Highway 61 Revisited” e “Blonde On Blonde”: tre pietre miliari della discografia mondiale. Quindi l’acustica e un ritorno al periodo “country” e intimista verso la metà degli Anni 70.  È non a caso nel 1974 che decide di ritirarsi dalla vita pubblica, subito prima di incidere “Hurricane“, nel ’75, che lo riporta alla protesta e al grande successo commerciale. Nel 1978 si converte al cristianesimo evangelico che porta con sé gli album gospel “Slow Train Coming” e “Saved“. È questo il periodo più difficile della carriera dell’artista, che rimane sì prolifico ma soffre probabilmente il disimpegno generalizzato dell’epoca. Mentre è nel decennio successivo che avviene il rilancio, sulla scia di quel “Time Out Of Mind” che segnerà l’inizio di una nuova fase in cui Dylan sarà più polemico anche nei confronti dell’ambiente musicale. Nel mezzo, la partenza nel 1988 del suo “Never Ending Tour“, ancora ufficialmente in corso, il cui ultimo concerto si è tenuto nel 2019. Proprio nel 2020 colpito dalla pandemia, infine, la pubblicazione dell’ultimo album, “Rough And Roudy Days”.

I successi – «È un immenso catalogo. Contiene 60 anni di storia e letteratura e musica americana». Con queste parole lo scrittore e critico musicale Alessandro Robecchi commenta la vasta produzione di Bob Dylan sulle pagine di Avvenire. E spiega: «C’è il Dylan folk di protesta, da Woody Guthrie al Village, c’è quello elettrico salutato come bugiardo dai talebani del folk, c’è quello blues di “Love and Theft”. E poi c’è il Dylan cristiano rinato, millenarista, quello pop, il crooner di “Murder Most Foul”, il brano dell’anno scorso sull’assassinio di Kennedy che di fatto è un salmo». In effetti si tratta di un artista impossibile da etichettare ma che ha fatto della capacità infrangere i tabù l’unico tratto distintivo della sua carriera: nel 1965 con “Like a Rolling Stone“, uno dei cardini della sua produzione, sforna un singolo di sei minuti, contravvenendo alle regole non scritte sulla breve durata. Dell’anno successivo “Blonde on Blonde“, il primo album doppio nella storia della musica rock, mentre il video promozionale di “Subterranean Homesick Blues” per molti è il primo vero videoclip della storia della musica. Tra i più grandi successi, “Blowin’ in the Wind” del 1962, che pone domande scomode sulla guerra, sulle ingiustizie e sull’indifferenza di chi si volta dall’altra parte per non vederle. Poi “The Times They Are a-Changin” del 1964, con cui Dylan partecipa alla lotta per i diritti civili. Non a caso il giorno della Marcia per i Diritti, quando Martin Luther King pronunciò il famoso discorso del “I have a dream”, Dylan salì sul palco e suonò tre canzoni. “All Along the Watchtower” (1967) la canzone più suonata dal vivo, ben 2270 esecuzioni: un dialogo fra un giullare e un ladro, visioni apocalittiche e allegoriche, il riferimento biblico al libro del profeta Isaia. Tanto forte da ispirare anche un artista agli antipodi musicali rispetto all’uomo di Duluth come Jimi Hendrix che ne fece una cover. Negli anni seguenti inanella una serie di successi globali con “Knockin’ on Heaven’s Door” (1973) e “Hurricane” (1976), in cui affronta la questione razziale difendendo apertamente Rubin «Hurricane» Carter, pugile afroamericano accusato ingiustamente di omicidio e condannato 10 anni prima. Grazie anche alle raccolte fondi organizzate dall’artista, nel 1988 l’atleta verrà effettivamente prosciolto. Si deve a “Love Sick” la sua rinascita dopo i traballanti anni ‘80 e ’90: atmosfere cupe, riflessioni blues sull’amore e l’età che avanza dominano questo pezzo, che gli varrà le accuse di essersi venduta dalla parte più rock dei suoi fan.

I premi e il Nobel alla letteratura – Tra i molti riconoscimenti che sono stati conferiti a Bob Dylan dieci Grammy Award, tra cui quello alla carriera nel 1991, il Polar Music Prize nel 2000, il Premio Oscar nel 2001 (per la canzone “Things Have Changed”, dalla colonna sonora del film Wonder Boys). E ancora il Premio Principe delle Asturie nel 2007, il Premio Pulitzer nel 2008, la National Medal of Arts nel 2009, la Presidential Medal of Freedom nel 2012 e perfino la Legione d’Onore nel 2013. Ma il premio che ha suscitato il maggiore dibattito è proprio il più recente: il 13 ottobre 2016 gli è stato conferito il Premio Nobel per la letteratura «per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana». Prima di lui solo George Bernard Shaw era riuscito a vincere sia un Nobel sia un Oscar. Un riconoscimento che Robecchi, sempre su Avvenire, giustifica in questo modo: «Pochi artisti pubblicano, accanto all’opera, i loro studi, i bozzetti, le prove, le varie versioni, le bozze. Dylan lo fa, e volendo puoi sentire, studiare, com’è nata una canzone, cos’è diventata nel tempo, come la suona dal vivo, o con l’armonica, o col contrabbasso. Dylan studia in pubblico, lo trovo meraviglioso».