«Oinós kai alethéia», «il vino e la verità». Scriveva così Alceo nel VII secolo a.C. e sbagliava Plinio il Vecchio, circa 700 anni dopo, a tradurre la lezione del lirico greco con il semplice, e oggi più noto, «in vino veritas». Alceo costruisce il suo verso con una congiunzione per voler rimarcare un parallelismo tra i due termini, come se alla presenza del vino corrispondesse sempre l’assenza di bugie e costruzioni. Inganno, evasione, sentimento: i topos privilegiati nella letteratura classica e moderna hanno visto nel vino un compagno imprescindibile. Dall’antichità fino ai giorni nostri sono molti gli scrittori che hanno dedicato al prodotto della macerazione delle uve canti, poesie e racconti. Nelle civiltà classiche era considerato una bevanda molto prelibata, che veniva riservata ai ceti più nobili della società e raffigurata nelle rappresentazioni delle divinità.

“Storia di Ulisse” di Pellegrino Tibaldi

“Il nettare degli dei” – Nell’antica Grecia il vino veniva associato a Dioniso, dio dell’ebbrezza e della liberazione dei sensi. Si pensava che l’alterazione dovuta al vino permettesse agli uomini di entrare in contatto con la divinità. Omero rovescia con ironia questa convinzione popolare, donando una rappresentazione del vino come rivelatore della vera essenza umana. Nell’Odissea, lo scrittore greco narra l’incontro dell’eroe Ulisse con il ciclope Polifemo, figlio del dio Poseidone. Il re di Itaca riesce a fuggire dalla prigionia imposta dal semidio (la madre di Polifemo era la ninfa Toosa) stordendolo con una grande quantità di vino. «Ma questa è ambrosia e nettare celeste – nota compiaciuto Polifemo, mentre Ulisse continua a versare da bere al gigante – Un’altra volta io gli stendea la coppa. / Tre volte io gliela stesi; ed ei ne vide / nella stoltezza sua tre volte il fondo». Mentre il ciclope credeva di ricongiungersi alla propria natura divina, rivelava per contrasto tutto il suo lato più umano.

Bere per dimenticare – Una delle credenze più antiche vede nel vino uno strumento per lenire i propri dolori e non pensare alle angosce che affliggono l’uomo. Questo mantra trova un fondamento anche nella scienza: nello stato di ebbrezza, le sinapsi interrompono parzialmente la loro capacità di immagazzinare informazioni, donandoci il vuoto di memoria tipico di una serata passata all’insegna del gomito alto. Nella letteratura latina, uomini come Orazio e Catullo utilizzano questa capacità del vino per evadere dalle pene dell’esistenza. Il primo, nella celebre Ode I, 11, quella del Carpe Diem, suggerisce di bere un bicchiere all’amata Leuconoe per ridurre le preoccupazioni relative alla sua vita: «Sii saggia, filtra il vino e accorcia la speranza, poiché la vita è breve». Per Catullo il prodotto dell’uva sarà invece l’unico fedele compagno in grado di alleviare le sue sofferenze, tormentato dall’amore non corrisposto di Lesbia: «Giovane ragazzo, versami calici più amari di vecchio Falerno […] Ma voi andatevene di qui, dove volete, acque, rovina del vino, e trasferitevi dai più seri».

L’amore e la violenza – Disinibisce, accresce l’empatia, e alle volte fa scoccare l’amore. Il vino nella letteratura è stato più volte avvicinato anche alla vita di coppia, vissuta all’insegna della felicità e dell’ebbrezza. «Mollemente cullati sopra le ali / di un turbine che sale con sapienza, / in un delirio che insieme ci assale, /affiancati in armoniosa alleanza, /fuggiremo», scriveva Charles Baudelaire ne I fiori del male, dove dedica diversi componimenti alla bevanda. Non solo di amore parla il poeta francese, ma anche di violenza e di morte per mano del vino. «Nessuno mi capisce: c’è uno solo, / tra questi ubriachi deficienti, / che ha pensato, nelle notti silenti, / di far del vino un funebre lenzuolo?». È Il vino dell’assassino, che dopo aver messo un marito davanti alla scelta tra l’amore verso la moglie e quello per il fondo di una bottiglia, lo accompagna in un gesto folle per poi abbandonarlo quando «senza paura né rimorso, / mi sdraierò per terra, e, così steso, / cadrò nel sonno come fossi un cane!».