Aveva solo 15 anni quando, nel 2012, fu vittima di un attentato terroristico in Pakistan. Oggi la sua storia è raccontata nel documentario “He named me Malala”, che dal 5 novembre viene distribuito nei cinema da 20th Century Fox (e che nel 2016 andrà in onda sul canale National Geographic di Sky).
Il film, diretto dal regista Davis Guggenheim (premio Oscar con il documentario Una scomoda verità), racconta la storia della giovane, a partire da quando, nel 2010, ad appena 13 anni cura in anonimo un blog per la Bbc in lingua urdu: qui Malala denuncia la repressione dei talebani nella Valle dello Swat, in Pakistan, dove le bambine vengono violentate e le scuole chiuse forzatamente. Verità, queste, che non piacciono ai militanti del gruppo Ttp (Tehreek-e-Taliban Pakistan), gli stessi che che il 19 ottobre 2012 sparano alla giovane mentre, con le amiche, tornava a casa dalla scuola a Mingora. La ferita le fa perdere l’udito a un orecchio e rischia di danneggiare gravemente la mobilità del volto e del corpo, ma non ferma la ragazza nelle sue battaglie: dopo la riabilitazione (di cui il film mostra le fasi) Malala torna in prima linea, affrontando anche i capi di Stato, dalla Nigeria per la liberazione delle ragazze rapite da Boko Haram agli Usa con Obama. Fino al premio Nobel per la pace, che le viene consegnato il 10 ottobre 2014.
Ma il film racconta la ragazza anche nella sua vita di tutti i giorni: dai battibecchi con i due fratelli alle ricerche al computer di attori e sportivi che le piacciono, come Brad Pitt e Roger Federer, per arrivare alle difficoltà ad ambientarsi nella nuova scuola di Birmingham, in Gran Bretagna, dove tutt’oggi vive. Oltre a Malala, il film ha un altro protagonista, il padre Ziauddin Yousafzai, insegnante e attivista, sempre al fianco della figlia, ma accusato da alcuni di “manovrarla”. Fin dalla scelta del nome, Malala, ispirato a quello di un’eroina afghana, Malalai: «Mio padre mi ha solo dato il nome Malalai – precisa la ragazza – ma non mi ha fatto diventare Malalai. Ho scelto io questa vita».
Clara Amodeo