scarlettRed carpet del Festival internazionale del film di Roma. Scarlett Johansson, molto elogiata per il suo Her, sorride sotto la pioggia e i fotografi impazziscono per lei: la “festa” imposta dal sindaco Marino al direttore Muller sembra proprio riuscita, una bella occasione per la città e per i romani. Peccato, solo, che quei sorrisi della Johansson si fossero appena visti anche tra le gondole di Venezia.

Colpa della singolare coincidenza di due festival cinematografici molto simili nello stesso Paese. Quella che molti iniziano a considerare uno spreco. Quelle maggiori sarebbero anche troppo ravvicinate tra loro: inizio settembre a Venezia, inizio novembre a Roma, metà novembre a Torino. Perché non farne una sola di caratura mondiale come Cannes o Locarno?

La risposta, secondo critici come Roberto Escobar, è la solita: “Per campanilismi, provincialismi, miopie culturali”. Dal suo punto di vista, in fondo, dell’ottava edizione di un festival di Roma così non c’era gran bisogno: “Il Festival di Torino a me sembra serio e interessante, certo ben più di quello di Roma”, dice. Inoltre quest’ultimo, il più recente dei tre, “non ha mai insidiato il festival di Venezia, l’ha solo disturbato”.

“A mio giudizio due festival così sono troppi”, gli fa eco Gianni Canova, presidente dell’associazione dei docenti di Cinema delle università italiane (Cuc). “Destinerei parte del denaro speso per creare due doppioni in un solo festival che promuova di più il cinema italiano che vale”. Anche lui si spiega la concorrenza di Roma e Venezia con logiche di potere.

Un giudizio duro, insomma, che colpisce la rassegna capitolina, tanto più che altri critici cinematografici hanno parlato di una sterzata della kermesse verso la “festa popolare” (per scelta, su indicazione dei soci) e di una rinuncia ad “insidiare” l’analogo veneziano, per budget e ancora per questioni politiche, nella corsa all’anteprima mondiale (vedi Cappelli e Mereghetti, Corriere della Sera del  7 novembre). Di certo nella capitale si sente la ricerca dell’audience, secondo Escobar, che sarebbe il vero motore della svolta “pop”, con Zalone a incontrare il pubblico. “Non ho nulla contro il cinema popolare, anzi è la condizione essenziale per avere un buon cinema, anche d’autore. Ma che il cinema popolare abbia bisogno di un Festival è opinabile”, continua il critico.

Una possibile debolezza che spiace di più perché la manifestazione ha un certo seguito all’estero, come dimostra la pagina dedicatale dall’Huffington Post (il Guardian l’ha fatto nel 2012 ma non quest’anno, e qualcosa vorrà dire). Non tutti i festival italiani hanno questa fortuna: ad esempio non l’ha il festival di Torino, a soli sette giorni di distanza. In questo caso, spesso si è parlato di penalizzazione dovuta alla vicinanza con la rassegna capitolina. Al di là delle criticità, il problema della sovrapposizione dei festival più ambiziosi sarebbe forse evitabile con una organizzazione migliore.

C’è da dire che quella Roma-Torino non è l’unica sovrapposizione. Nel 2013 anche festival minore di Milano si è svolto in concomitanza con Venezia, ma forse per sfruttarne l’onda. L’Italia, di fatto, pullula di manifestazioni cinematografiche più o meno importanti, da Bergamo a Napoli passando per l’Abruzzo, riunite in parte nell’Associazione nazionale dei Festival italiani di Cinema (Afic).

Contro chi li considera soldi buttati, l’Afic sfodera una ricerca, condotta dall’università Iulm, che indaga il potenziale economico e culturale delle rassegne. Il risultato è sorprendente: per ogni euro speso nell’organizzazione, il territorio ne guadagna più di due in incassi turistici, nella ristorazione e in posti di lavoro. Per i festival come Torino gli organizzatori rientrano in parte delle spese con i soldi del biglietto, in quelli più piccoli a beneficiare rimane la collettività.

“È tempo che i festival prendano coscienza del proprio ruolo, assumano una fisionomia imprenditoriale nel senso migliore del termine – dice Giorgio Gosetti, presidente dell’associazione – e si aprano a verifiche oggettive per migliorare la propria capacità di offerta e di sostegno all’economia territoriale”. Secondo il documento, questi eventi sono capaci di costruire un’economia parallela della cultura, popolarità nelle aree medio-piccole e senza uscire troppo dai budget. Ovviamente dalla ricerca sono esclusi Roma e Venezia, perché secondo i ricercatori possono contare su fondi pubblici più consistenti.

L’Afic, infine, sottolinea “il forte valore identitario delle rassegne cinematografiche”. Secondo Escobar questa potrebbe essere una caratteristica che i vari festival potrebbero approfondire per non pestarsi i piedi a vicenda: “A parte Venezia, come auspicabile punta di diamante tra i festival italiani, io credo che la strada giusta sia proprio quella della specializzazione. Basta ricordare l’altissima qualità delle Giornate del cinema muto, a Pordenone”.

Eva Alberti