Uno spadone a due mani tatuato su un avambraccio e una giacca in broccato nero con richiami di arazzi su cui si staglia un papillon rosso fuoco. Già osservando la platea che attende lo spettacolo si intuisce che quello che domenica 11 agosto andrà in scena sul palco dell’Arena di Verona sarà qualcosa di insolito. Carmina Burana – cantata scenica composta da Carl Orff su testi poetici medievali – diretta da Ezio Bosso ha una stretta connessione con la contemporaneità e non è un caso se lo stesso direttore a fine concerto utilizzi Fortuna Imperatrix Mundi, il brano più conosciuto, come trampolino di lancio per l’annuncio di una notizia dell’ultima ora. Nel 2020 tornerà all’Arena per dirigere la Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, in occasione del 250° anniversario dalla nascita del compositore tedesco.


Direzione al debutto – 
Il lungo applauso dell’anfiteatro già mezzo pieno un’ora prima dell’inizio del concerto fa capire quanto sia grande l’attesa e l’entusiasmo per la presenza di Bosso. Le parole di ringraziamento del direttore verso il coro alla fine delle prove generali hanno il sapore di una citazione al suo amico e collega Claudio Abbado, scomparso cinque anni fa: «Grazie per il vostro impegno, sarà un grande spettacolo. Divertiamoci e facciamoli divertire!»
Di fronte a circa 14mila spettatori (per un sold out prevedibile sia per il ritorno a Verona di questa opera dopo quattro anni di assenza, sia per la presenza d’eccezione sul podio) il Maestro torinese dimostra di non essere affatto intimorito per il suo debutto all’Arena di Verona: dalla prima nota muove la bacchetta con impeto e precisione, come tenesse con una sola mano le redini di una cavalcatura che sul palco altro non è che l’Orchestra dell’Arena di Verona. Fa intersecare con fluidità i cori sul tappeto strumentale, che cresce e decresce come una marea a seconda dei suoi movimenti delle mani e delle sue espressioni del viso.
Il coinvolgimento emotivo e fisico di Bosso aumenta costantemente, fino ad accompagnare i contrappunti dell’ultimo brano (Fortuna Imperatrix Mundi) con gemiti che ricordano i tennisti sotto sforzo quando giocano i punti decisivi. Una dedizione premiata dalla standing ovation del pubblico e dall’annuncio del ritorno in Arena l’anno prossimo per continuare a «rendere popolare i tesori della storia» e celebrare il genio compositivo di Beethoven.


Cromatismi e contrapposizioni – 
Due sono i fili conduttori che si riconoscono nel corso dell’ora e mezza a tema medievale: il contrasto cromatico e la contrapposizione delle voci. Il nero è il colore dominante dell’orchestra e del coro diretto dal Maestro Vito Lombardi, con due vistose eccezioni sceniche: il coro delle voci delle bianche – oltre 60 bambini tra A.d’A.Mus. diretto da Marco Tonini e A.li.Ve. diretto da Paolo Facincani – rigorosamente in camicia bianca, e la soprano Ruth Iniesta vestita con un lungo abito verde smeraldo che richiama il secondo brano Primo Vere (primavera). 
Se in apertura Fortuna Imperatrix Mundi è un’esplosione corale guidata dalle tube e dalle percussioni, In taberna sprigiona il primo confronto tra la potenza della voce del baritono Mario Cassi, che sovrasta anche i violini e riempie tutto l’anfiteatro, e l’acutezza delle note del controtenore Raffaele Pe. Fino ad arrivare al gioco di confronti vocali e passionali del Cour d’amours, tra la delicatezza del soprano («Sulla bilancia dell’anima ondeggiano contrapposti il desiderio e la purezza») e l’irrequietezza del baritono («Vogliano gli dei concedermi quello che desidero»), risolti infine dal coro nel brano Blanziflor et Helena.
La chiusura è un nuovo tripudio sulle note di Fortuna Imperatrix Mundi, scandite con una scenografia semplice ma di forte impatto visivo: sul battere delle percussioni, sedici fontane di fuoco si accendono ritmicamente, dando ancora più vigore alla «sorte possente e vana, cangiante ruota» che domina su ogni cosa terrena.

Dal manoscritto allo spartito – «Condivido con quest’opera il suo stravagante destino. Figlia di un lavoro filologico pioneristico, ha avuto una storia davvero pop, tanto che O Fortuna ha aperto tanti concerti metal. Così io ho fatto studi classici, ma dato che ho tanto pubblico, per alcuni sono un po’ pop». Con queste parole Bosso introduce l’opera che l’ha portato a calcare per la prima volta in carriera il palco dell’Arena di Verona, confermando la natura immortale dei testi medievali sopravvissuti nella cantata di Orff del 1935-1936.
Carmina Burana fa parte del trittico teatrale Trionfi e fu rappresentato per la prima volta l’8 giugno 1937 a Francoforte sul Meno (in Italia cinque anni più tardi al Teatro alla Scala di Milano). Si tratta di 24 brani in latino, alto tedesco e provenzale, tratti da una raccolta dell’XI e XII secolo. Furono ritrovati nel monastero bavarese di Benediktbeuernnel 1803, tramandati dal codice miniato Codex Buranus: da qui il titolo dell’opera, ripresa e musicata dal compositore tedesco.
Carmina Burana, con i suoi molteplici temi goliardici diffusi dai clerici vagantes – dalla ruota della fortuna ai piaceri dell’amore, il vino, il gioco e la condanna della condotta dei religiosi – è un esempio della nascita dello spirito poliglotta e itinerante del basso medioevo. Un’opera che rispecchia alla perfezione l’idea della musica secondo il Maestro Ezio Bosso: uno strumento capace di superare ogni barriera linguistica e di veicolare qualsiasi tipo di messaggio, anche il più critico nei confronti della società a cui viene rivolto.