«Noi non recitiamo più. Lo dico sempre all’inizio degli spettacoli che sto portando in giro adesso: non facciamo altro che passare dalla giornata che abbiamo vissuto al palcoscenico, passando per i camerini». Goriziano di nascita ma milanese d’adozione, l’interprete, comico e drammaturgo Paolo Rossi – in occasione della giornata mondiale del teatro, il 27 marzo – racconta così il suo rapporto con il palcoscenico e la recitazione, ripercorrendo le tappe più importanti della sua carriera.
Come si è avvicinato al teatro?
Credo che sia lui che mi è venuto a cercare. A Ferrara frequentavo il bar sport dove si parlava di calcio e quelle discussioni erano veri e propri spettacoli teatrali. Poi c’era la chiesa e un centro di studi anarchico, tenuto da un signore del posto. Ho preso spunti sia dal bar che dal circolo e ho fatto uno spettacolo in parrocchia. Poco dopo sono arrivato a Milano. Mi ero iscritto all’università, dove ho conosciuto un ragazzo che seguiva un laboratorio teatrale. Non riuscivo ad ambientarmi bene e ho cominciato per fare amicizia: è da lì che il teatro mi ha raggiunto.
Qual è la rappresentazione teatrale a cui ha preso parte che le è piaciuta di più?
Lo spettacolo di cui ho il ricordo più bello è sempre il prossimo. Noi attori che lavoriamo molto sull’improvvisazione – una disciplina quasi militare – abbiamo delle frasi che ci ripetiamo spesso. Una è: “immaginarsi il futuro per ricordarsi il passato” e questo spiega un po’ la forma mentale che seguo.
In un’intervista a “Propaganda Live” circa due anni fa lei aveva dichiarato che dopo la pandemia nulla sarebbe tornato come prima per quanto riguarda il teatro, è stato così? Ha notato dei profondi cambiamenti nel rapporto con gli spettatori?
Il pubblico è sicuramente cambiato, perché in questo periodo ha bisogno di essere confortato mentre il mondo del teatro fa finta che non sia successo niente. Continua a inseguire bandi e algoritmi ministeriali, come se tutto dovesse tornare come prima, distaccandosi dai reali bisogni della gente. Per quanto riguarda me e la mia compagnia, noi cerchiamo di andare in direzione contraria e per ora i risultati di affluenza ci danno ragione. Gli spettacoli fanno il tutto esaurito e i teatri sono pieni.
Come mai?
Probabilmente per una serie di coincidenze. In primis la coerenza che abbiamo tenuto durante il lockdown, quando abbiamo continuato a lavorare gratuitamente con altri, sopperendo alla quasi mancanza di supporto del Ministero della Cultura. Siamo andati nei cortili, nelle piazze, nelle strade; luoghi non deputati al teatro ma che hanno permesso un sano intrattenimento. Dopodiché ha contribuito anche la voglia di tornare a vedere cose dal vivo e magari il fatto che siamo allenati sull’improvvisazione, portando al pubblico uno spettacolo che non sarà mai uguale a quello del giorno prima.
Non c’è quindi ripetitività nelle sue rappresentazioni teatrali?
I miei spettacoli sono completamente diversi. L’improvvisazione non è solo creare sul momento una storia ma significa anche interagire col pubblico e interpretare un pezzo di repertorio rendendolo contemporaneo. Noi seguiamo le regole dei commedianti dell’arte che improvvisavano nello stile, nell’atteggiamento e a volte inventavano delle battute. Sul palco sale sì l’attore, che conosce il mestiere, ha una tecnica e una cassetta degli attrezzi (compreso il repertorio), ma con lui salgono anche i personaggi che evoca e soprattutto la persona che è veramente.
Lei ha un legame speciale con Milano: ha notato dei cambiamenti nel mondo del teatro negli ultimi anni?
Mi fai una domanda che ultimamente mi pongo tutti i giorni perché sono bigamo, parlando di città. Da un anno e mezzo ho la residenza a Trieste e faccio pendolare per raggiungere Milano. Ma non ho ancora capito bene chi sia la moglie e chi l’amante (ride, ndr). Sto pensando di ritornare nella capitale lombarda, vedendo anche l’affetto del pubblico milanese che sento quasi come una responsabilità. Inoltre la città è molto stimolante, essendo vicino al mondo economico e alle mode: un tipo di cultura che riguarda anche il teatro.
Da Tognazzi a Gaber, fino a Fo, molti sono gli attori che hanno popolato la scena teatrale milanese: come si sente a essere paragonato a questi grandi maestri?
Mi sento responsabile. Ho avuto la fortuna di lavorare con alcune di queste persone quando ero un ragazzino e di conoscerli e frequentarli sia nella vita che sul palcoscenico. Mi reputo un privilegiato perché ho preso parte a un periodo storico fondamentale e ora sento la responsabilità di passare il testimone. Ma non bisogna avere soggezione dei maestri. A volte il modo migliore per abbracciarli artisticamente non è quello di essere un bravo ragazzo: in certi momenti bisogna rispettare più se stessi che loro.
Un’ultima domanda: come vede il Paolo Rossi del futuro?
Come un vecchio clown, è sempre quello a cui ho ambito. Per ora non devo far altro che dire grazie. A volte lo faccio così nel vuoto, mentre cammino per strada o vado in bagno. Anche se devo dire che questa fortuna me la sono cercata, non mi è arrivata cosi come un colpo di fulmine. Ho fatto tante scommesse e alcune le ho anche pagate.