A Dale Cooper, l’agente speciale di Twin Peaks, non sarebbe sfuggito. È proprio lui a spiegarlo, del resto, durante le indagini sulla morte di Laura Palmer: quando due fatti separati vengono a coincidere durante lo svolgimento di una stessa indagine, bisogna sempre prestare la massima attenzione. È il doppio, la corrispondenza, il doppelgänger: la chiave delle visioni di David Lynch. E così non può non suggestionare la sua morte a pochi giorni dagli incendi californiani: il fuoco, rivela la signora Ceppo, «è il diavolo celato come un codardo nel fumo». È il diavolo «che cammina con me», come nel prequel della serie tv. Ed è il vero protagonista della parabola artistica del regista più misterioso del novecento, che si è spento il 20 gennaio per un aggravamento dei suoi problemi polmonari, dopo essere stato sfollato per i roghi che hanno devastato Hollywood, le sue colline e le strade verso Mulholland Drive.

Un fotogramma tratto da “Il fuoco cammina con me” un film del 1990 diretto da David Lynch e Mark Frost
La fine di un mondo – «Alcuni dicono che il mondo finirà nel fuoco» scrive in un suo componimento Robert Frost (che nulla ha a che fare con Mark Frost, l’altro padre di Twin Peaks). Eppure è un verso che bene informa sul destino del mondo lynchiano. È una poesia che bene si accorda alla fine di un mondo, quello cinematografico, per come l’abbiamo conosciuto fino ad ora. La colonna sonora di questa fine, va da sé, l’ha composta Angelo Badalamenti. Ciò che rischia di comportare, invece, è di là da venire: esisteranno ancora, dopo Lynch, registi che non proteggono il proprio spettatore, che non lo accontentano, che non lo sottovalutano? Ci saranno ancora artisti che nel mettere il mondo tra parentesi, parafrasando Edmund Husserl, inseguono l’ignoto, il dolore, e in definitiva mettono in scena ciò che spesso si vorrebbe ignorare, cioè il male e il mostruoso che già sono dentro di noi? Forse sì. Ma di certo non potranno ignorare chi, prima di loro e più di tutti, ha messo in scena il fuoco, lo ha nutrito e ci ha sconvolto.
Cinema e non solo – Nato e morto in gennaio – con perfetta circolarità e corrispondenza (ancora una volta: il doppio) – nella sua lunga carriera ha ricevuto tre nomination al Premio Oscar per la regia (per The Elephant Man, Velluto blu e Mulholland Drive), la Palma d’oro al Festival di Cannes 1990 per Cuore selvaggio, il Prix de la mise en scène a quello del 2001 con Mulholland Drive e il Leone d’oro alla carriera durante la 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Unendo critica e spettatori, avanguardia e ampio seguito, con le sue perturbanti visioni di roghi (materiali e metafisici) ha sovvertito il cinema e le sue aspettative, fino a riuscire nell’intento di portare il filmico in tv.
E così il fuoco non segna solo la fine: marca l’inizio (o il nuovo inizio). Anche nell’opera di Lynch. In Wild At Heart, ad esempio, è il ricordo del proprio padre in fiamme a spingere la protagonista ad abbandonare una madre disturbante e liberarsi. E allora forse vale l’adagio popolare del fuoco rigeneratore: come nella mostra allestita da Lynch stesso, che ancor prima che regista, era un pittore e scultore, l’aria è in fiamme, e lo sarà sempre. Alcune sue opere, fantocci antropomorfi dalla testa carbonizzata che comunque camminano nel bosco, lo rivelano. E allora non è un addio, Lynch. Come direbbe Laura Palmer, «I’ll See You In 25 Years».