Immanuel Kant compie 300 anni. Era il 22 aprile 1724 quando nella fredda Königsberg di Prussia (oggi Kaliningrad, exclave russa sorvegliata dalla Nato) nacque uno dei più influenti filosofi della storia. Autore che ha rivoluzionato i tre grandi ambiti della filosofia (la teoria della conoscenza, la morale e l’estetica) con il suo “criticismo”, Kant è stato letto e commentato da tutti i pensatori successivi. Nella storia della filosofia esiste un prima e un dopo Kant: ogni autore ha dovuto fare i conti con concetti come “giudizio sintetico a priori”, “imperativo categorico” o “bello come piacere disinteressato”.
Vero incubo di molti studenti per la complessità del suo pensiero e della sua scrittura, il filosofo prussiano, come lui stesso scrisse nella sua opera più famosa, la Critica della ragion pura, ebbe come obiettivo la risposta a tre domande, riassumibili in una quarta: che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare? Insomma: che cos’è l’uomo?
La lezione di Kant, secondo Massimo Marassi, docente ordinario di Filosofia teoretica all’Università Cattolica del Sacro Cuore e autore della traduzione integrale in italiano della Critica del Giudizio per Bompiani, sta nella «valorizzazione della dignità umana, che risiede nella libertà».
Professore, sono passati 300 anni dalla nascita di Kant. Il pensiero di questo filosofo è ancora attuale?
«Se per attuale intende “di moda”, Kant è totalmente fuori moda. Ma se per attuale intende che i suoi scritti abbiano ancora qualcosa da dire all’uomo del nostro tempo, la risposta è si. Il suo pensiero trascende il suo contesto storico e per la stagione che stiamo vivendo ha ancora oggi una validità impressionante. Vale il principio di Italo Calvino: “classico” è un autore che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Kant è uno di questi».
Qual è il messaggio più importante che ci ha lasciato?
«Forse quanto ha scritto nel 1784 nel saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? L’illuminismo è l’uscita dallo stato di minorità. Cioè l’incapacità di usare il proprio intelletto senza la guida di un altro perché manca coraggio. “Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza” è una provocazione che tocca tutti. Pensare da sé e agire in maniera autonoma sono due insegnamenti che potrebbero cambiare il mondo radicalmente. Perché il problema non è avere o no la ragione, ma saperla usare. Credo che questo saggio andrebbe riletto come vademecum per vivere la contemporaneità».
Contemporaneità fatta di guerre in tutto il mondo. Non è utopico quello che ha scritto in Per la pace perpetua, e cioè che, per esempio, non dovrebbero più esistere gli eserciti permanenti o che non si dovrebbe intervenire con la forza nelle costituzioni e nei governi degli altri Stati? La storia ci dice che le cose non sono andate in questo modo.
«La filosofia della storia di Kant non è utopica nel senso che non è qualcosa di sognato. È qualcosa di teoreticamente argomentato, scritto sulla carta. Lui ha cercato di porre delle condizioni per governare gli eventi. Secondo Kant, solo una struttura confederata di Stati può favorire la pace tra i popoli. Non c’è altro modo. Intervenire con l’uso della forza (anche nascosta) nei governi di altri Stati o minare la fiducia delle persone con atti imperdonabili in aggiunta alla guerra è proprio ciò che sta accadendo oggi. Così i popoli saranno segnati per cinque generazioni da ciò che è stato commesso».
Kant non è anche in parte responsabile della perdita di certezze della società occidentale di oggi? L’avere affermato l’impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima o l’esistenza di Dio vanno in questa direzione.
«Per alcuni l’autore delle tre Critiche è stato un distruttore di tutto. Ma lui era convinto di aver distrutto convinzioni che non avevano un fondamento. Kant affermò solo che queste idee della ragione non possono essere conosciute come gli oggetti dell’esperienza sensibile. Tuttavia, è necessario pensarle, considerarle come postulati della morale perché non vanno conosciute, vanno vissute. Devono essere colte grazie alla nostra libertà, che ci qualifica come esseri umani insieme alla ragione. Ecco perché quando viene meno la garanzia della libertà della persona, è il regno della barbarie, in cui tutto è possibile. Ed ecco perché, quando uno non crede più nella propria ragione, vanifica la propria esistenza».
La morale di cui parla Kant, che mette al centro il “dovere”, sembra estranea alla società di oggi, dove il principio di piacere e il reclamo dei diritti sembrano farla da padroni.
«Il dovere di cui Kant parla non è formalismo, non è estrinseco o comandato dall’esterno. È una legge morale interiore, che la persona da a sé stessa. Un dovere che realizza l’io, che in questo modo ha cura di sé. Non è come essere costretti a seguire regole e procedure, con la conseguenza che la tentazione di trasgredire è forte. I gerarchi nazisti giustificarono i loro crimini dicendo “io eseguivo degli ordini”. Questa è una cattiva interpretazione dell’imperativo categorico kantiano. Ciò che veniva loro comandato era contrario alla realizzazione dell’uomo. Infatti, il dovere va interiorizzato perché la persona capisca il motivo per cui compie determinati atti. La ragione pratica insegna che non possiamo dare per scontati valori o credenze. Dobbiamo trovare un principio che li legittima. Così saremo capaci di distinguere il vizio dalla virtù, un buon governo, da un cattivo governo».
In che direzione va la ricerca su Kant oggi?
«Si sta studiando molto l’ultimo Kant: la sua antropologia, per esempio, che è una vera miniera. In ogni caso, sempre tenendo presente che il suo criticismo è un sistema di pensiero, che non si può considerare a compartimenti stagni, o in cui emerga solo la Critica della ragion pura. A proposito di antropologia, credo che si debbano sottolineare tre livelli. Il primo: la cultura riguarda la persona. Il secondo: la civilizzazione riguarda la società. Il terzo: una morale della libertà è un bene universale del mondo. È un grande messaggio di Kant: una strada verso l’emancipazione, trasformazione e rispetto del fine che l’uomo è in sé».