Si intitola Almajiri Boy lo scatto di Marco Gualazzini candidato nella categoria «Foto dell’anno» al World Press Photo, il più prestigioso riconoscimento internazionale di fotogiornalismo. Questo e altri sono raccolti in Resilient: una mostra che durerà fino al 24 marzo presso la Fondazione Forma di Milano e un libro, edito da Contrasto, che riunisce i lavori realizzati durante l’ultimo decennio nelle zone di crisi in Africa. I suoi reportage sono stati pubblicati, tra gli altri, da New York Times, Der Spiegel, L’Espresso e Internazionale.

Quando si fotografa un movimento massiccio come quello migratorio non si corre il pericolo di replicare sempre la stessa immagine? Di immortalare «i migranti» anziché gli uomini?

Quello di strumentalizzare l’oggetto del nostro sguardo credo sia un rischio valido per l’arte in generale, a qualsiasi latitudine. Molto dipende dalla bravura del fotografo, ma anche lo spettatore gioca un ruolo importante: chi guarda deve assumersi la responsabilità di leggere la realtà in modo sincero e senza malizia.

Digitando la parola «immigrazione» nella ricerca per immagini di Google, il primo risultato che otteniamo è la fotografia di Massimo Sestini premiata al World Press Photo nel 2015. Come e perché quello scatto è diventato un simbolo?

In quei mesi erano molti a concentrarsi sulla crisi migratoria in atto. Spiccò chi scelse di raccontarla da un’altra prospettiva. A un anno dalla tragedia Francesco Zizola si immerse a 50 metri di profondità e riprese il relitto del peschereccio naufragato a Lampedusa il 2 ottobre del 2013. Era una tassello, serviva a comporre il puzzle. Massimo Sestini ebbe l’intuizione opposta: salì su un elicottero e incorniciò la scena dall’alto. È una macchia di colore circondata dal blu. Il punto luce naturale è tutto il barcone: l’effetto è straordinario.

Sui social  l’odio non è soltanto di chi attacca, anche chi replica si difende odiando

Non sempre il messaggio è positivo. Penso alla foto shock della reporter Nilüfer Demir che ritrae Alan Kurdi, il bimbo siriano ritrovato senza vita sulla rive della Turchia. Immagini così d’impatto quale effetto hanno sull’opinione pubblica?

Il più delle volte estremo: da un lato un eccesso di compassione che sospende l’analisi dei fatti, dall’altro una polemica e un’ostilità che non risparmiano nessuno: sui social l’odio non è soltanto di chi attacca; anche chi replica si difende odiando. Per questo, se da fotografo sono il primo a riconoscerne l’utilità, da cittadino preferirei che di immagini del genere si facesse a meno.

Il 2019 si è aperto con un’altra vittima del mare, l’adolescente di cui ricorderemo il dettaglio della pagella che portava cucita nella giacca. In questo caso non abbiamo una testimonianza fotografica, ma la storia è stata visualizzata da una vignetta di Makkox (Marco D’Ambrosio) diventata virale. Qual è la differenza tra questi due linguaggi in termini evocativi?

La foto non evoca: racconta. Nella serie di incisioni realizzate da Francisco Goya intitolata I disastri della guerra, archetipo del moderno graphic novel, le didascalie del pittore servivano a sottolineare il grado di realismo: «Non è fantasia, è accaduto davvero!». Nella fotografia, al contrario, non c’è alcun bisogno di dire: «Io c’ero», perché questo è lo specifico del mezzo fotografico. Ma a entrambe le narrazioni sta a cuore un risultato: provocare una reazione in chi guarda.

Resilient è il titolo del tuo primo libro fotografico. «Resiliente», nella lingua italiana, indica ciò che resiste, che reagisce al trauma e alla sofferenza. Quindi un’Africa forte e un’Europa con un elevato indice di fragilità?

Nel 2013 Enzo Nucci girò per la Rai il documentario Le ragazze di Mogadiscio vanno al mare. Un titolo rivoluzionario, che interpreta la rinascita di un Paese in guerra dal ’91, la Somalia, a partire da un gesto che per le sue donne ha un valore, è appunto un atto di resilienza. Allo stesso modo sentivo il bisogno che a legare queste istantanee del conflitto fosse altro rispetto al conflitto. Dovevo trovare un filo che mi consentisse di non replicare la solitudine del dramma, di abbracciarlo nel cerchio della speranza.