In segno di protesta contro il divieto di accesso negli Stati Uniti per i cittadini provenienti da sette paesi islamici voluto da Trump, il MoMA da febbraio espone nella sua collezione permanente, al quinto piano del museo, alcune opere di artisti originari di questi paesi. Accanto a Picasso e Matisse si possono ammirare l’artista sudanese Ibrahim El-Salahi o l’iraniano Parviz Tanavoli. «La maggior parte di queste opere sono state acquisite dal museo nel 1965, ma fino ad ora non erano state esposte al pubblico» fa notare Reem Fadda, curatrice della Biennale di Marrakech del 2016. «Sono passati direttamente dai magazzini alla collezione permanente. Ma perché sono rimaste nascoste tutto questo tempo? Perché si è dovuta aspettare un’emergenza, un disastro come la politica trumpiana per rispolverarle e renderle fruibili?». La marginalità dell’arte musulmana e africana nelle collezioni museali occidentali è evidente, e non è giustificata dalla sua subalternità estetica o qualitativa, come dimostra questo episodio. Piuttosto dal persistere di una visione culturale e di una storia dell’arte centrate sulla produzione occidentale. «Ma l’arte musulmana ha dato un contributo fondamentale alla produzione artistica occidentale del 900 e a New York, che ha un debito con moltissimi di questi paesi» continua Fadda. Se il mercato e i collezionisti si sono accorti della ricchezza dell’arte africana contemporanea, del secolo scorso e di oggi, anche le rassegne e i musei occidentali si interrogano su come essere il più ricettivi possibili alle novità che vengono dai luoghi del mondo periferici ai centri della produzione artistica tradizionale.
In terra anglofona si parla spesso di “rebranding”, concetto che qualcuno ha auspicato anche per l’arte africana. Ma la maggior parte dei curatori dei musei è scettica: «Il concetto stesso di brand – da cambiare, sviluppare, promuovere – può essere fatale in un campo com’è quello artistico» avverte Zoe Whitley, curatrice della Tate Modern. «Non vedo i movimenti della storia dell’arte come brand e non riconosco il concetto di brand in alcun contesto storicoartistico, sia che si parli di stili sia che si parli di provenienza geografica». Della stessa idea Alicia Knock, curatrice del Centre Pompidou: «Quella di arte africana è più una connotazione etnografica, o un’etichetta utile a livello di mercato o di collezionismo. Un museo o uno spazio istituzionale rischia molto se si pone nell’ottica di promuovere l’arte africana in termini di brand. In Francia non parliamo di arte africana o musei africani. Al Pompidou cerchiamo di fare acquisizioni o esposizioni temporanee tematiche e retrospettive valorizzando l’arte del continente, ma in quanto pezzi d’arte, testimonianze artistiche significative».
Anche perché il concetto stesso di Africa e arte africana sono problematici e difficili da definire. Silvia Forni, curatrice del Royal Ontario Museum di Toronto, ricorda per esempio la produzione artistica figlia della diaspora e di quegli artisti che fanno “arte africana” pur vivendo in occidente. Mentre Alicia Knock è cauta: «Non che non esistano il panafricanismo e alcune caratteristiche comuni sul continente, delle tematiche che lo attraversano, ma bisogna stare molto attenti nell’attribuire l’etichetta di arte africana. È sempre in agguato il rischio di proporre visioni naïve o di stampo colonialista». Fino ad ora, infatti, se da un lato l’arte africana è stata tenuta ai margini in occidente, dall’altro è stata spesso oggetto di rappresentazioni stereotipate ed edulcorate. Un museo occidentale oggi deve riuscire a svincolarsi da entrambi i rischi.
Il primo rischio, quello di continuare a tenere ai margini la produzione artistica del continente africano è ormai anacronistica e non più percorribile. Fino ad ora questa marginalizzazione è stata facilitata infatti dalla carenza in Africa di infrastrutture utili a supportare e diffondere l’arte contemporanea, quali gallerie, grandi musei, case d’aste, collezionisti. Ma la situazione sta conoscendo un netto cambio di tendenza, con la nascita di fiere e rassegne, il lavoro delle case d’aste e dei musei, tra cui l’atteso Zeitz Museum of Contemporary Africa Art di Cape Town. A ciò si aggiungono il decentramento dei luoghi dell’arte globale: a dettare la linea non ci sono più solo Parigi o New York ma Beirut, Marrakech, Lagos; e la frammentazione della stessa proposta artistica in occidente. In passato musei e critici occidentali tendevano a creare una narrazione ufficiale della storia dell’arte, oggi sostituita da molteplici narrazioni provenienti da diverse parti del mondo.
Accogliere le opere provenienti degli artisti africani, tuttavia, per i musei e le rassegne occidentali non basta, perché c’è il rischio di farlo in un’ottica di risarcimento dei territori sottorappresentati. In questo senso l’etichetta stessa di arte africana può rivelarsi controproducenti: «L’etichetta è isolazionista, esclusiva, e questo non dovrebbe accadere in contesto artistico» avverte Reem Fadda, «c’è il rischio di privilegiare il dato di rappresentazione geografica a discapito della qualità». L’arte africana, come qualsiasi altra arte, va vista piuttosto come un contributo alla cultura comune, un tassello per comprendere la produzione artistica a livello globale. Al rischio di cadere nello stereotipo del riscatto dalla minorità bisogna quindi rispondere cambiando la narrazione, con proposte di qualità, e lasciando spazio a un’autonarrazione che forse inizialmente potrà stupire il pubblico occidentale.
Il museo deve quindi educare e spostare i paradigmi tradizionali, non semplicemente dare al pubblico ciò che il pubblico si aspetta. Questo anche in risposta a chi crede che sarebbe più utile portare, più democraticamente, l’arte nelle strade. «L’idea di un’arte accessibile perché portata e fruita sulla strada è utopica quanto pericolosa. Il pubblico deve avere i mezzi per fruire dell’arte e il museo non deve soltanto rendere le opere accessibili ma anche educare alla fruizione, non solo sfamare il bisogni del pubblico ma anche prenderlo in contropiede» dice Knock. «Il museo modella l’immaginario collettivo, educa, propone narrazioni, rappresenta le diversità, ma fa tutto questo ragionando sul lungo termine, non affrontando le emergenze». Per l’ultima mostra sul Ghana al Royal Ontario Museum, Silvia Forni ha personalmente speso diversi anni sul campo e la mostra si è trasformata in un progetto articolato nel paese africano. Ma il ruolo propulsivo del museo di Toronto è stato fondamentale.
La cultura occidentale può riscoprire se stessa instaurando un dialogo con l’arte africana, come dimostrano gli studi postcoloniali. Razzismo, colonialismo: la sfida dei musei è quella di nominare le cose, scoprire il velo dei rapporti fino al secolo scorso intrattenuti con il continente, e farlo anche nei luoghi di diffusione della cultura dove questa subordinazione è stata in passato accettata. Per Reem Fadda questo è tanto più necessario e utile in un contesto di passato coloniale e conseguenti migrazioni. «Solo iniziando a capire Rashin Araeen, artista minimalista pachistano residente a Londra, gli inglesi hanno potuto capire i problemi degli immigrati e se stessi. La creazione dell’identità è continuamente in fieri e uno scambio continuo. E lo stesso deve accadere con gli artisti africani. Lo studio delle relazioni del passato coloniale sono per l’Occidente un modo per capire se stesso. E lasciare spazio alle voci fino ad ora marginalizzate e a narrazioni alternative è un modo per mettere in discussione, migliorare e interrogare anche la propria identità».