C’è chi insegna l’italiano con l’aiuto di un software, chi studia la scrittura per lavorare in tribunale, chi vede nei social una forma moderna di teatro. In comune hanno l’amore per i classici. I pregiudizi, nei confronti di chi, all’università, sceglie oggi una facoltà umanistica, sono numerosi. Eppure, se in pieni anni Duemila migliaia di giovani prendono ancora la strada delle lettere, una ragione deve esserci.

«Provo a trasformare in speranza la potenza lesiva della crisi. Come fanno i maestri delle arti marziali giapponesi». Chiara ha 27 anni. È nata ad Arce, un piccolo comune in provincia di Frosinone, ma da parecchi anni vive a Roma, dove nel 2011 si è laureata in Studi italiani ed europei. Da due anni frequenta Arigraf, una scuola triennale di grafologia: «Mi sto specializzando nelle perizie grafiche giudiziarie», racconta. «Da poco, poi, dopo aver accumulato qua e là collaborazioni con vari giornali on-line, ho deciso di aprire un mio sito, insieme a due amici. Scriviamo di artisti emergenti». Del suo lavoro parla con entusiasmo: «Ho intervistato Giacomo Verri, autore di “Partigiano Inverno”. Non lo conosci, eh?», domanda. «È arrivato finalista al Premio Calvino. Ha poco più di 30 anni e per vivere fa l’insegnante, come Caproni e Pavese. Ecco, il mio lavoro vorrebbe dare visibilità al talento che spesso, per mancanza di soldi e fortuna, rimane nell’ombra».

Chiara è una ragazza determinata, un esempio di sano equilibrio tra sogni e realismo. «Non posso chiudere gli occhi accecata dall’amore per le lettere. La strada è tutta in salita e i sacrifici si sprecano. Non sopporto – però e perciò – che si pensi alle facoltà umanistiche come a scatoloni polverosi colmi di storie passate».

Il fastidio di Chiara è il risultato di una convinzione oggi molto radicata: studiare lettere è inutile. Un vero suicidio, una condanna conscia e consapevole al precariato. «Cosa vuoi fare, l’insegnante?» è la domanda più frequente che uno studente-umanista si sente ripetere. Come se diventare professore, al giorno d’oggi, tra concorsi e tirocini formativi, fosse cosa facile. Eppure – in piena età moderna, mentre il tasso di disoccupazione giovanile sfiora quota 40 per cento -, c’è ancora qualcuno che all’università sceglie una facoltà umanistica. Nell’anno accademico 2011/2012 gli iscritti alla sola Lettere e Filosofia erano, dati Miur alla mano, quasi 200 mila. Perché?

«Per passione» è la prima risposta, quella solitamente tacciata di idealismo. Di idealismo, certo, ce n’è: «Ma è forse poco?», dice Chiara. «Tante persone perdono il lavoro. Poi la speranza. Io non posso permettermi di perderla ancor prima di aver cominciato».

La seconda risposta, invece, la danno le storie di quanti, a dispetto dei pregiudizi e delle indubbie difficoltà in tutti i settori, hanno trovato una strada propria. Un percorso originale che racconta come le materie classiche possano vivere, oggi, un matrimonio felice anche con le nuove tecnologie. «È difficile dare un nome alla mia professione. Diciamo che sono social media specialist e web content manager». Irene, 25 anni, si è avvicinata al mondo del web marketing e dei social media dopo una laurea triennale in Lettere moderne e una specialistica in Editoria. «Ho iniziato frequentando associazioni culturali e piccole case editrici. Mi sono occupata dell’aspetto comunicativo di queste realtà e ho presto scoperto che internet offre, in questo senso, molte possibilità». Ogni giorno Irene scrive testi per siti web e blog, cura e aggiorna pagine sui social: «Faccio anche un po’ di web marketing: scrivo newsletter, gestisco la pubblicità e curo il posizionamento su Google». «Lavoro per una web agency», chiarisce, «ma sono anche freelance». Una professione, la sua, nata dall’amore per i libri e mossa dal desiderio di scoprire cosa c’è dietro: «Ho sempre cercato un’applicazione più concreta per i miei studi umanistici». Irene, che da studentessa si è nutrita di Dante, Goldoni e Manzoni, ha trovato nel web e nei social un modo per attualizzarne l’eredità: «Il teatro, l’arte, la poesia nascono come strumenti per esteriorizzare un sentimento, diffondere un pensiero, proporre una visione del mondo», spiega. «Oggi i mezzi più utilizzati per questo tipo di comunicazione sono proprio il web e i social media».

Facebook e Twitter danno lavoro anche a Pietro, che del suo percorso umanistico conserva oggi una collaborazione con la cattedra di letteratura contemporanea della sua vecchia università: «Sono cultore della materia: preparo qualche lezione e do una mano durante gli esami. Il mio vero lavoro, però, è un altro». 25 anni anche lui, Pietro si occupa, per un ente pubblico, di relazioni esterne e comunicazione istituzionale. Prima di avere un contratto, è passato per svariati colloqui e selezioni. Poi c’è stato uno stage. «A volte», ammette, «qualche nozione di diritto mi manca. Ma sto imparando e ho sempre referenti a cui rivolgermi. Il mio percorso accademico, insomma, non ha mai rappresentato un limite. Anzi. Con i miei studi ho imparato il profondo valore delle parole: oggi, che lavoro con la scrittura e con il linguaggio, questo insegnamento si rivela continuamente utile».

Accanto a Chiara, Irene e Pietro esistono giovani, poi, che il loro futuro lo cercano all’estero. Una ricerca dell’osservatorio Work in Progress ha rivelato, nell’aprile di quest’anno, che il 64 per cento dei giovani italiani sarebbe disposto a lasciare il Paese per lavoro. Chi ha scelto la strada delle lettere, alle volte, decide di partire perché scontento dell’attenzione che l’Italia riserva al proprio patrimonio culturale. «Il nostro Paese deve moltissimo alla cultura, ma non ci investe a sufficienza». Federica ha 26 anni, ha studiato Letteratura italiana ed europea prima a Roma e poi a Bologna. Adesso, da circa un anno, vive a Parigi: «Faccio un esempio: poco tempo fa un’inchiesta ha svelato che tutti i musei pubblici italiani, messi insieme, incassano meno del Louvre da solo. L’Italia sfrutta poco il proprio patrimonio culturale». Dei suoi studi, però, Federica non si è pentita, perché, sostiene, «non si può formare una classe di burocrati senza qualcuno che sappia pensare con un approccio umanistico». Il suo bagaglio, per questo, ha deciso di portarlo altrove e di metterlo a disposizione degli altri: «Vorrei insegnare in Francia l’italiano». Per farlo, sta studiando per il Capes, acronimo per Certificat d’aptitude au professorat de l’enseignement du second degré: un diploma professionale del ministero dell’Educazione francese per ottenere l’abilitazione all’insegnamento. Il concorso è molto selettivo: appena 46 posti per circa un migliaio di domande. «E pensare che l’insegnamento lo avevo sempre escluso. Ma da quando sono in Francia la mia prospettiva è cambiata completamente. Qui l’insegnante è una figura professionale che gode ancora di grande rispettabilità».

Giovanni, invece, ha scelto la Germania: vuole diventare professore di lingua italiana, ma a differenza di Federica ha escluso la strada dei concorsi pubblici: «Troppa burocrazia», ammette. «Io avevo voglia di lavorare subito e ho cercato una strada alternativa. Ho superato l’esame Cedils dell’università Ca’ Foscari di Venezia e adesso ho un diploma che attesta la mia competenza in didattica dell’italiano come lingua straniera». Con questo certificato, Giovanni può insegnare italiano negli istituti privati o nelle volkshochschulen, le università del popolo, istituzioni tipicamente tedesche. «Ho scelto un mestiere antico, ma della tecnologia non potrei fare a meno». L’informatica, per la sua professione, è di grandissimo aiuto: «Mi servo ogni giorno di software per l’apprendimento mnemonico: programmi, in sostanza, che attraverso un meccanismo di ripetizione aiutano i miei studenti nella memorizzazione. Diversamente da quanto si pensi, lettere e tecnologia vanno molto d’accordo». Dietro a un assistente virtuale, per esempio, «quel segretario digitale che sul web risponde alle tue domande», c’è sempre un linguista.

Se gli chiedi il perché della sua scelta, Giovanni, come gli altri, dà, d’istinto, la prima risposta: «Per passione». Poi cita Calvino, che a sua volta, in “Perché leggere i classici”, cita Cioran: «Se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran: “Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. ‘A cosa ti servirà?’ gli fu chiesto. ‘A sapere quest’aria prima di morire’”».

Giulia Carrarini