Centocinquant’anni fa, il 22 maggio 1873, moriva a Milano Alessandro Manzoni in seguito a una scivolata rivelatasi fatale sui gradini della Chiesa di San Fedele, oggi sorvegliata da una sua statua a pochi passi da dove batté la testa.
Da allora, con le sue opere, lo scrittore milanese non è solo entrato nei libri di scuola. «Don Lisander» ha fatto breccia nella lingua italiana, nei modi di dire («Ai posteri l’ardua sentenza»), nello sguardo che volgiamo alla realtà. Così, in un uomo pavido, subito rivediamo Don Abbondio, colui che non può darsi il coraggio che gli manca. In un politico prepotente riconosciamo Don Rodrigo. E nei sogni di un giovane che programma la propria vita ritorna la storia di Renzo, «un innamorato che vuole semplicemente sposarsi», spiega Pierantonio Frare, ordinario di Letteratura italiana all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Un’esperienza di felicità – A distanza di un secolo e mezzo, perché dunque leggere il racconto di un autore vissuto in un millennio diverso dal proprio? «Perché I Promessi Sposi è un bellissimo romanzo», risponde ancora Frare. Dopotutto, prosegue il professore, Manzoni è stato anzitutto un grande scrittore. E leggerlo, come Dante per Borges, rappresenta una «”esperienza di felicità”, etica ed estetica». C’è la limpidezza della scrittura, pensata perché tutti potessero capire anche solo ascoltando. E c’è l’eredità filosofica che consiste nell’attribuzione della responsabilità personale: nell’insegnare, cioè, che «il male che gli uomini fanno è colpa loro: non di Dio, non di interventi esterni», conclude.
I cittadini – scrive a proposito il nipote di Cesare Beccaria – rispondono delle loro malefatte e delle conseguenze che causano nell’animo delle loro vittime. «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi», si legge nel secondo capitolo de I Promessi Sposi, oggetto in questo mese di maggio di un ciclo di letture corali in Duomo.


Il ruolo dell’intellettuale –
Un ulteriore lascito della riflessione di Alessandro Manzoni riguarda la figura dell’intellettuale e il suo ruolo nella società. Come spiega Monsignor Ballarini, curatore insieme a Massimo Rodella della mostra sui libri di Don Ferrante alla Pinacoteca Ambrosiana, ci sono due errori che, secondo il romanziere milanese, il letterato deve ben guardarsi bene dal commettere.
Il primo è quello in cui casca Don Ferrante, il quale «si chiude in casa», «lascia completamente fuori il mondo esterno», e si abbandona in un sapere puramente formale che, a poco a poco, erode la sua capacità di ragionare fino a condurlo a morire «come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle», invece di riconoscere di esser stato contagiato dalla peste.
Il secondo sbaglio è quello compiuto dal dottor Azzecca-garbugli, archetipo dell’intellettuale «al servizio dei potenti di turno, di coloro che possono mantenerlo».

Pensare e scrivere – «Manzoni pensa», e scrive in «una prosa che tutti possono comprendere», sottolinea Ballarini. Ed è questa sua incessante «ricerca delle motivazioni, delle cause, dei motivi segreti al di là delle parole che vengono proclamate», a rendere il «padre della prosa italiana» un punto di riferimento imprescindibile per ciò che può insegnare ai giovani studenti: l’importanza di riflettere e di scrivere per i propri lettori.