Robert Capa. Henry-Cartier Bresson. Joseph Koudelka. Gli anni Settanta sono pieni di reporter che, macchina fotografica Leica al collo, viaggiano e raccontano il mondo. O almeno, questo è il mito che ci siamo costruiti a più di trent’anni di distanza, grazie alle mostre e pubblicazioni che hanno celebrato questi fotografi in azione. Ma quella del giornalismo fotografico, secondo Uliano Lucas, è una storia tutta da riraccontare: «Basti pensare che nessuno in Italia in quegli anni pubblicava la Magnum, perché era troppo sovversiva. Solo sulla rivista Epoca uscirono i primi servizi di Cartier Bresson ma nient’altro. Tanto che anche Publifoto, l’agenzia che inizialmente distribuiva gli scatti Magnum in Italia, smise di farlo perché non li comprava nessuno».

Anonimi e dimenticati – Gli stessi fotografi italiani balzati agli onori della storia della fotografia sono solo alcuni dei reporter che fotografavano per i giornali del tempo: «Oltre a loro c’erano centinaia di altri fotografi anonimi che tenevano in piedi quotidiani e riviste. E non erano minimamente considerati neanche al tempo: non potevano discutere le direttive delle agenzie, non avevano alcuna autonomia, potevano vendere servizi ai giornali o alle riviste solo se erano affiancati da un giornalista. Non partecipavano ad alcuna riunione di redazione», racconta Lucas. «Negli anni Cinquanta c’erano tre agenzie artigianali. Una di queste era Publitalia, che vendeva le foto a Unità, Popolo e Corriere, e aveva alle sue dipendenze centinaia di fotografi. Ma erano gente con contratti semplici, analoghi a quelli di semplici metalmeccanici o impiegati».

Una vita dietro l’obiettivo – Uliano Lucas, classe 1942, nasce a Milano da una famiglia operaia. Già a sedici anni frequenta l’ambiente di artisti, fotografi e intellettuali che gravitavano attorno al quartiere Brera. È qui che conosce Ugo Mulas, Mario Dondero e Alfa Castaldi. Ed è qui che decide di tentare la via del fotogiornalismo, vedendovi uno strumento di impegno civile e una professione indipendente, libera da costrizioni. Lucas inizia fotografando le atmosfere della città. Poi arriva il coinvolgimento nel movimento del ’68, i reportage sull’immigrazione in Italia e all’estero e sulle guerre di liberazione in Angola, Eritrea e Guinea Bissau per il Tempo, La StampaIl manifesto, L’Europeo e L’Espresso. Era quest’ultimo, secondo Lucas, l’unico giornale veramente libero e interessato a indagare la realtà nella sua completezza.

L’eredità del fascismo – «Il problema andava raccontato tutto, e il problema erano i vent’anni di fascismo, il fatto di essere stati esclusi per molto tempo dalla cultura europea, dalle correnti del surrealismo, del dada, del cinema francese e di conseguenza anche del grande fotogiornalismo. In Italia il monopolio delle immagini e della cultura delle immagini era dell’istituto Luce, e lo è rimasto per molto tempo anche dopo il fascismo. La maggior parte dei fotografi delle agenzie degli anni Cinquanta era stata nella Rsi e quando cominciai a lavorare la maggior parte dei miei colleghi era qualunquista, voleva solo far foto che fossero vendibili». Chi, come lui, negli anni Cinquanta-Sessanta voleva raccontare il paese senza censure non aveva esempi a cui rifarsi: «Siamo stati autodidatti, dovevamo raccontare la gente che fino a quel momento non era mai stata rappresentata e che continuava a non esserlo anche sui giornali principali. Il Corriere della sera non raccontava le periferie, i poveri, gli operai fuori dai cancelli della Fiat alle 6, ma neppure raccontava certe realtà difficili come i manicomi, che vennero chiusi in quegli anni. Faceva eccezione solo L’Espresso».

 

Controinformazione ieri e oggi – «Negli anni Cinquanta e Sessanta» ricorda Lucas, «i grandi servizi dei settimanali erano quelli chiesti dal potere, relativi allo spettacolo o allo star system. L’operaio era sempre rappresentato secondo gli stereotipi della borghesia: sporco e in tuta. Paradigmatica era anche la rappresentazione che davano i giornali dell’Africa: nessuno raccontava la storia dei popoli che combattevano contro il colonialismo, così come negli anni Novanta pochi racconteranno la lunga resistenza di Sarajevo. Tutt’oggi, anche se le agenzie di stampa internazionali sono molto più forti e capillari, avremmo bisogno di controinformazione fatta da agenzie stampe locali: non mi sembra realistico che le fotografie scattate in Africa o America del sud siano tutte di inglesi e americani e nessuna di fotografi locali. Oltre ad essere deontologicamente dannoso è controproducente per la qualità stessa dell’informazione».