Costumi, colori e sceneggiatura come Franco Zeffirelli voleva e poteva fare. La Turandot messa in scena all’Arena di Verona per celebrare il centenario della morte di Giacomo Puccini, allestita seguendo i dettami del regista scomparso nel 2019, si riconferma un’opera senza tempo. O meglio, di una Cina al tempo delle fiabe come intendeva il maestro lucchese. Quattro le serate dedicate al colosso dell’opera lirica: 8, 15, 22 e 29 giugno. L’allestimento del palco è maestoso e la luce della reggia dorata della perfida principessa cinese mostra tutto il suo splendore avvolta dalla cornice del più celebre teatro sotto le stelle d’Italia. La mano del regista non fa che rendere ancora più spettacolare la rappresentazione, dando vita al personaggio forse più difficile: “il popolo di Pechino“, la folla disposta in basso, vestita di grigio e che partecipa alle scene sempre con un’unica voce. È il coro degli oppressi, in grado, però, di prendere parte e persino decretare le sorti delle figure principali. Ad accompagnare alcune delle scene più intense il complesso di voci bianche A.d’A.Mus. diretto da Elisabetta Zucca.

L’ultima opera del compositore, incompiuta e conclusa nell’ultimo duetto e nel finale da Franco Alfano e poi revisionata da Arturo Toscanini, è stata scelta per inaugurare la 101esima stagione lirica dell’Arena di Verona. Non a caso: proprio Turandot fu la prima felle liriche pucciniane a essere rappresentata su quel palco nel 1928. Nella direzione ha debuttato Michele Spotti, che a soli 31 anni è già direttore musicale dell’Opera e dell’Orchestra Filarmonica di Marsiglia. A strappare gli applausi più calorosi il personaggio di Liù, interpretata sabato 15 giugno da Maria Agresta, nonché l’immortale “Nessun dorma” intonato da Gregory Kunde, nei panni del principe ignoto che vuole (e riesce) a tutti i costi conquistare il cuore della spietata principessa. Un’opera, la Turandot, che non smette di incantare gli amanti del genere e in cui, secondo il maestro Spotti, è ancora «tutto» da scoprire.