Scoppia uno scandalo di corruzione e l’immagine della propria azienda è rovinata per sempre. È questa la paura più grande dei manager quando si parla dei rischi connessi ai fenomeni di corruzione. A dirlo è l’ultimo report (l’Anti-Bribery and Corruption Benchmarking) stilato da Kroll, la società di consulenza specializzata nelle investigazioni, in collaborazione con l’Ethisphere Institute.
Il Report. Mantenere una reputazione limpida è la preoccupazione principale per le imprese, e quando vengono associate a episodi di corruzione rischiano di vedere i loro affari compromessi. «Nella valutazione dei manager potrebbe essere stato decisivo lo scandalo che l’anno scorso ha travolto la casa automobilistica tedesca Volkswagen», spiega Marianna Vintiadis, amministratore delegato di Kroll per il Sud Europa. Che precisa: «Il problema della corruzione è che innesca dei circoli viziosi di illegalità i cui effetti collaterali vanno ben oltre gli attori in gioco, danneggiando ad esempio anche l’erario. Non sono coinvolte soltanto le imprese, ma l’intera società». E per evitare imprevisti spiacevoli, molte aziende cominciano a investire parte dei loro bilanci nel controllo e nella sicurezza.
Il ruolo delle aziende italiane. La maggiore area di rischio, secondo il 40 per cento dei manager intervistati nello studio, è nelle “parti terze” – i clienti, gli agenti e i fornitori – che le aziende non controllano direttamente. Ed è proprio in questo bacino che si annidano le principali violazioni. Un’area dove sono protagoniste proprio le aziende italiane, che spesso lavorano come fornitori di multinazionali straniere. «Le società italiane dovrebbero prendere maggiori provvedimenti per combattere il malaffare. Da noi il danno d’immagine è ancora sottovalutato», rivela Vintiadis.
Serve più trasparenza. Ma a danneggiare gli affari non è solo la corruzione. La mancanza di trasparenza è un altro fattore preoccupante. «Nella lotta alla corruzione, al riciclaggio e alla criminalità organizzata è fondamentale sapere chi sia la persona fisica dietro ciascuna società», spiega Virginio Carnevali, presidente di Transparency International, che ha condotto una ricerca sulle leggi in materia di trasparenza finanziaria con il supporto della Commissione europea. Il Paese più limpido in questo senso è la Slovenia, che insieme all’Olanda porta avanti una battaglia contro le cosiddette “scatole cinesi”, offrendo l’accesso pubblico al registro dei titolari effettivi delle aziende. L’Italia, che pure è seconda nel rapporto di Transparency, non soltanto non consente l’accesso pubblico al registro, ma prevede regole più morbide per i Trust stranieri. Una situazione che potrebbe migliorare quando il Belpaese recepirà le direttive europee in materia.
Il caso Milan. Un esempio concreto di scarsa trasparenza finanziaria è l’acquisizione della squadra di calcio milanese da parte del fondo guidato dal cinese Li Yonghong. «È un problema che riguarda non soltanto la società o i tifosi, ma tutti i cittadini. Il Milan e l’Inter hanno in concessione dal comune di Milano lo stadio San Siro», afferma Carnevali, «perciò non è possibile che un ente pubblico non conosca la reale identità di un concessionario». Sulla questione interviene il Presidente della Commissione antimafia del comune di Milano, David Gentili, che aggiunge: «Ad oggi è poco chiaro persino agli stessi cinesi chi siano gli acquirenti del Milan. L’intera operazione è stata condotta in modo poco trasparente, e sicuramente il Comune interverrà per chiarire la situazione e ottemperare agli obblighi di legge».