Con 171 voti a favore, 105 contrari e un solo astenuto, il decreto banche è diventato legge. Mercoledì 6 aprile 2016 il Senato ha approvato il provvedimento che stabilisce la riforma del credito cooperativo, votando la fiducia posta dal Ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. La legge si inserisce nel progetto governativo di mettere in sicurezza gli istituti italiani, reduci da un’annata a dir poco turbolenta.

Il testo è già attuativo, ma perché l’autoriforma prenda forma serviranno alcuni mesi e regole fissate dalla Banca d’Italia. L’obiettivo è rafforzare il mondo delle banche di credito cooperativo: una galassia di 360 istituti spesso di piccole e piccolissime dimensioni, perciò molto vulnerabili. Lo schema è questo: tutti gli istituti cooperativi – ad eccezione di quelli con almeno 200 milioni di patrimonio cumulato – dovranno far riferimento a una capogruppo Spa, dal patrimonio netto minimo di un miliardo di euro. Il decreto fissa poi i criteri per gestire i crediti deteriorati ricorrendo a una garanzia pubblica: il cosiddetto progetto “bad bank”. E poi abolisce l’anatocismo: ovvero la contabilizzazione degli interessi sugli interessi sui conti correnti e sulle carte di credito.

La prossima cosa da fare, per il governo, sarà provare a rimediare al dissesto di Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. I due istituti di credito sono gli ultimi protagonisti della crisi nazionale che per tutto il 2015 ha colpito il settore bancario italiano. Le due banche venete hanno conti in profondo rosso e chiederanno quasi 3 miliardi di euro ai loro investitori, per assorbire le perdite e riportare il loro livello di solidità sopra la soglia di guardia. Popolare di Vicenza ha chiuso gli ultimi tre bilanci in rosso per un totale 2,2 miliardi e un livello Cet1 (l’indice che misura la solidità) al 6,81%. Come se non bastasse, il suo patron storico Zonin è accusato di comportamenti poco trasparenti nella concessione di mutui e nella vendita delle azioni della banca. Il piano in discussione tra Palazzo Chigi e Banca d’Italia mira a risanare queste due situazioni di crisi in modo che non siano soggette ad un salvataggio attraverso la procedura di bail in.

BAIL IN
Dal 1° gennaio 2016 sono entrate in vigore a livello europeo nuove norme che prevedono, nei casi di dissesto economico particolarmente grave di un istituto di credito, l’applicazione del salvataggio interno della banca — il cosiddetto bail in. La normativa europea BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive, 2014/59/EU) sancisce che in caso di crisi bancaria devono intervenire a sostegno dell’istituto di credito gli azionisti, gli obbligazionisti e, se necessario, i correntisti oltre i 100 mila euro per lasciare indenni i conti correnti e le obbligazioni ordinarie dei clienti. L’aiuto del sistema, ovvero del Fondo di Risoluzione, arriva solo dopo che gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati (coloro che hanno accettato un rischio maggiore a fronte di una cedola molto più alta della media sull’investimento eseguito) hanno partecipato al salvataggio della banca.

Resta da capire da dove arriveranno i fondi per garantire gli aumenti di capitale dei due istituti veneti. Non potranno essere soldi pubblici, pena l’accusa della Commissione Europea di aiuti di Stato. L’obiettivo rimane evitare il ripetersi delle vicende del novembre 2015, quando il Governo ha dovuto varare un decreto per il salvataggio di Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e CariChieti. Dopo anni di perdite, gestione poco trasparente e svalutazioni dei crediti, le quattro banche sono state rifondate con il decreto, azzerando il capitale di azionisti e obbligazionisti per ripulirne i bilanci. Ora attendono di essere rilevate da nuovi investitori. Nel frattempo però, migliaia di persone hanno perso tutti i loro risparmi per aver sottoscritto obbligazioni ad alto rischio. Lo scandalo di Banca Etruria ha dimostrato le abitudini degli italiani in tema di risparmio dipendano ancora in gran parte dalle banche. Oltre ad essere fortemente condizionate dalla scarsa etica degli operatori del settore e dal basso livello di cultura finanziaria dei cittadini.

Dopo il fallimento proprio di Banca Etruria, il governo Renzi ha iniziato a lavorare a un progetto che consentisse di alleggerire la quantità di crediti in sofferenza delle banche del nostro Paese. I veri protagonisti delle crisi bancarie sono loro infatti loro: i Non Performing Loans (crediti non performanti). Prestiti o i mutui concessi dalle banche a imprese, ma che poi non vengono ripagati. Succede soprattutto durante le recessioni economiche: se le PMI falliscono e non sono più in grado di rispettare gli oneri finanziari, le banche vedono aumentare i propri crediti deteriorati. Le sofferenze interne di un istituto, parti di capitale a rischio per i mancati pagamenti, sono il motivo per cui una banca entra in crisi e non è più in grado di svolgere il proprio ruolo.

BAD BANK
La bad bank , che non è un’istituzione che prende depositi e fa prestiti come le banche tradizionali, ma è una realtà finanziaria al quale l’istituto in sofferenza trasferisce i crediti cattivi così da ripulirli e presentarli sul mercato come nuovi strumenti di investimento. In Italia si sta lavorando più propriamente a uno strumento diverso dalla bad bank, che sarebbe vista come aiuto di stato (proibito dalla normativa UE). In gergo tecnico è detto Special Purpose Vehicle, un veicolo societario giuridicamente distinto dalla banca cartolarizza i “crediti cattivi”, ovvero li impacchetta in obbligazioni garantite dalle stesse sofferenze sottostanti e li piazza sul mercato affinché vengano acquistati dagli investitori istituzionali. Nel progetto del governo ogni banca italiana creerebbe il suo SPV le cui obbligazioni cartolarizzate sarebbero in parte garantite dal governo. Le banche ripulirebbero così i loro bilanci e potrebbero tornare a erogare prestiti a famiglie e imprese come un tempo.

Tutto questo avviene mentre altri istituti continuano a fare i conti con problemi ormai cronici di bilancio, come Monte dei Paschi di Siena o Banca Carige, che pure si sono messi al riparo da crisi immediate con i recenti aumenti di capitale. Gli istituti popolari più grandi (tra cui UBI, Banco Popolare e BPM) sono poi alle prese con l’autoriforma del loro statuto e la quotazione, imposti loro dal governo nel 2014. Crisi e trasformazione sono state le due parole chiave degli ultimi 12 mesi delle banche italiane. Si spera che le prossime siano diverse.

Camilla Colombo
Antonio Lusardi