La guerra sui dazi tra Stati Uniti e Cina viaggia a un ritmo più veloce delle inquadrature nei duelli dei film western. Dal Liberation day del 2 aprile le tasse doganali imposte da Donald Trump al Dragone sono salite del 42,1%. Due giorni dopo la reazione di Pechino che ha stabilito il 34% in più ai danni degli Stati Uniti. Quindi la contromossa degli Usa che dall’8 aprile ha fatto impennare le tariffe al 104%. Il presidente cinese Xi Jinping non è stato a guardare e ha tassato ulteriormente i beni americani del 50%, raggiungendo così l’84%. L’asticella degli Stati Uniti dal 9 aprile è stata fissata per la Cina al 125%, «basata sulla mancanza di rispetto della Cina per i mercati del mondo» ha detto l’inquilino della Casa Bianca. Il 10 aprile infine Washington ha sospeso l’imposizione delle nuove tariffe disposte otto giorni prima a 75 paesi ma non alla Cina.

Pechino – Xi Jinping in un discorso pubblico ha dettato la dottrina: in una fase cruciale di cambiamenti nelle dinamiche regionali e negli sviluppi globali bisogna «costruire una comunità con un futuro condiviso». Una grande muraglia commerciale, dunque, per gli Stati Uniti, e una serie di ponti con i Paesi asiatici o comunque confinanti, tra cui ci sono cinque tra le prime 15 economie globali, oltre alle nazioni in via di sviluppo del Sud-Est asiatico. Per Xi costituiscono «una base importante per il raggiungimento dello sviluppo e della prosperità».

Il Tesoro americano – La strategia di Trump è di isolare la Cina. E lo potrebbe fare in forza della sua egemonia sul Pacifico, garantita dalle alleanze politiche e militari con il Giappone, la Corea del Sud e le Filippine e dal dominio sui mari asiatici. Sul piano commerciale, poi, «allinearsi con la Cina – ha dichiarato il segretario al Tesoro Scott Bessent – è come tagliarsi la gola, un suicidio». Bessent ha aggiunto: «La Cina non fa altro che produrre e produrre, inondare il mercato e abbassare i prezzi».

Donald Trump il 2 aprile ha annunciato una raffica di dazi contro tutti i partner commerciali degli Stati Uniti

La bilancia commerciale – Gli Stati Uniti sono convinti che a perdere la battaglia dei dazi sarà Pechino per i rapporti di scambio tra i due colossi. Il made in China negli Stati Uniti vale 562,9 miliardi e costituisce il 30% dell’export cinese. Si tratta di abbigliamento, elettrodomestici, mobili e, negli ultimi tempi, pannelli solari, auto e batterie elettriche. Gli americani invece esportano in Cina (terzo mercato dopo Canada e Messico) prodotti per 195,5 miliardi, soprattutto beni legati al trasporto e alle tecnologie, ma anche soia e materie prime come il petrolio, i minerali e il gas. Il Paese del dragone, tuttavia detiene 797,7 miliardi di dollari del debito statunitense, il secondo per volumi dopo il Giappone. Inoltre, come misura di stimolo, i leader di Pechino starebbero discutendo di svalutare la propria moneta per favorire l’export. Nell’ultima settimana lo yuan è scivolato al minimo dal 2007 di 7,3518 sul dollaro.

Zero cooperazione – Lo scenario che si prospetta è di un azzeramento o quasi della cooperazione in ogni ambito: dallo stop di esportazioni di pollame negli Usa, che sta soffrendo per l’aviaria, alla mancata collaborazione sui traffici di fentanyl, la droga contro cui Trump ha promesso battaglia nella propaganda anti-Messico. E poi come scelta simbolica, la mossa anti-hollywoodiana. Un documento pubblicato da due blogger cinesi affermati e vicini al governo mostra un piano per ridurre o vietare l’importazione di film statunitensi, che da sempre rappresentano un biglietto da visita e la manifestazione dell’american way of life e di un modello culturale.

Isolazionismo culturale – In un clima da guerra fredda, dallo scorso gennaio il governo americano ha vietato al personale della propria ambasciata e dei consolati in Cina di avere relazioni amorose o sessuali con i cittadini del posto. Chi non rispetta questa regola, a meno che non abbia già un rapporto ufficiale pregresso, dovrà essere rimpatriato. Una linea di non fraternizzazione che per lo Stato dell’Ohio vale anche per il mondo dell’istruzione, per cui vengono impediti gli scambi con le università cinesi. Da parte sua il colosso asiatico, attraverso i suoi ministeri, ha invitato i propri turisti a non viaggiare negli Stati Uniti e i suoi studenti a prestare attenzione se raggiungono il suolo americano.