La scadenza del blocco dei licenziamenti il 30 giugno riapre il dibattito nella maggioranza di governo, con PD, M5S e LeU che spingono per la proroga delle tutele, mentre centrodestra e Italia Viva propendono per il suo superamento per stimolare la ripresa economica. A Draghi il compito di fare sintesi tra le varie sensibilità. Sembra probabile una proroga selettiva per i settori maggiormente in crisi ma Guglielmo Loy, presidente del consiglio di Vigilanza dell’INPS e sindacalista UIL, avverte che la distinzione potrebbe essere più difficile di quanto si possa pensare.

Qual è il suo giudizio sulla probabile scelta del governo di differenziare la proroga del blocco dei licenziamenti in base al ricorso alla cassa integrazione?
È comprensibile flessibilizzare in base all’area produttiva, ma è una scelta tecnicamente complicata perché le filiere sono profondamente integrate. Il percorso produttivo delle merci è misto, quindi nello stesso settore si rischiano trattamenti ineguali. Inoltre, la richiesta della cassa integrazione non equivale sempre al suo effettivo utilizzo.

Sul tavolo c’è anche la sorte di grandi aziende impegnate nei tavoli di crisi al ministero dello Sviluppo Economico  come Whirlpool e Alitalia. È possibile inserire anche loro nella proroga del blocco dei licenziamenti? E nel caso è auspicabile?
Le norme non sono mai soggettive, non si può dunque fare eccezioni sul nome delle aziende. Così come mi pare difficile includere solo le aziende che hanno aperto un tavolo di crisi al ministero dello Sviluppo Economico. Più fattibile utilizzare la formula inserita nel Jobs Act di “aziende di rilevanza strategica” per salvaguardare non solo i posti di lavoro, ma anche un settore per cui c’è un interesse collettivo. I problemi in questo caso vanno oltre la crisi Covid e il blocco dei licenziamenti: si tratta di avere una visione del futuro industriale del Paese.

Quanti sono secondo lei i posti di lavoro a rischio con la fine del blocco dei licenziamenti?
È difficile dare un numero preciso, dipende anche dai dati che si prendono in considerazione. Un dato importante e sottostimato è quello delle mancate riattivazioni dei contratti di lavoro, che non figurano come licenziamenti ma hanno comunque una grande rilevanza. Considerando questi potremmo essere nell’ordine delle centinaia di migliaia.

Quali sono i settori e le aree geografiche più a rischio?
Per quanto riguarda i settori sicuramente il tessile, che infatti è al centro dell’attenzione del governo, e il terziario/turistico. Ma anche in questo caso si intersecano fattori extra-pandemia, come la difficoltà nel turnover stagionale. A livello geografico non credo ci sia un’area particolarmente toccata.

Quali potrebbero essere le soluzioni?
È evidente che non ci sia la bacchetta magica, ma pochi interventi ben finanziati ritengo che potrebbero aiutare. Ritengo fondamentale una profonda rivesione della Naspi, l’indennità di disoccupazione. Dovrebbe essere più lunga e più generosa, ma accanto a questo va fatto un vero investimento sulla responsabilizzazione dei centri per l’impiego e sugli incentivi alle imprese per assunzioni e riassunzioni.

Cosa pensa della contemporanea fine del blocco di alcuni sfratti?
La verità è che da almeno 30 anni non c’è interesse per le politiche abitative, che invece sono un tema fondamentale, visto che spesso occupano il 40-50% del reddito delle famiglie. Tutto è lasciato in mano ai Comuni, che spesso però non hanno le risorse per salvaguardare il diritto dei proprietari e rendere più dolce l’uscita di casa degli inquilini che non hanno più il diritto di stare in casa. Purtroppo spesso si assiste a una guerra tra queste due categorie, senza che le istituzioni facciano nulla.