Sono colossi digitali, ma fanno profitti concreti. E devono pagare le tasse come qualunque altra azienda che opera sul territorio italiano. È quanto Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera e deputato del Pd, ha proposto per Google, Amazon, Apple e Facebook. Un’idea che è già stata bollata come “Google Tax”.
La proposta di Boccia è stata presentata come emendamento alla Legge di Stabilità, con oggetto la “vendita di servizi online” e le firme dei senatori Pd Russo, Fedeli e Ghedini. Nel 2012 Google ha versato al fisco italiano 1,8 milioni di euro, Amazon 950 mila, Apple 648 mila e Facebook poco meno di 132 mila. Troppo poco, secondo l’On. Boccia, che punta il dito sui troppi slalom fiscali che queste aziende riescono a fare, nei Paesi in cui operano. I danni per l’erario sarebbero di circa un miliardo di euro all’anno. “Bisogna fare chiarezza – dice Boccia – e nella relazione che ho fatto al Parlamento non ho esitato a parlare di chiare pratiche elusive”.
Per capire queste pratiche occorre aver chiari due concetti: “Double Irish” e “Dutch sandwich”. Sembrano scritti sul menu di un pub di Dublino, invece sono due modelli ben noti agli esperti di fiscalità e legislazione tributaria internazionale. Meccanismi che, sfruttando pieghe normative e situazioni favorevoli, permettono a grandi aziende di pagare imposte minime rispetto al fatturato.
Tecnicismi a parte, funziona così: invece che dichiarare direttamente i guadagni ottenuti in Italia e pagare le tasse previste dalle nostre leggi, Google e simili “girano” i ricavi ad altre società del gruppo con sedi in paradisi fiscali. I ricavi vengono indicati come servizi prestati a queste società, che possono sfruttare la loro sede privilegiata sotto forma di aliquote più basse e norme favorevoli. E quindi pagano molte meno tasse di quante avrebbero dovuto sborsare in Italia. La complessa triangolazione riguarda Google, Apple e Facebook, che hanno sede in Irlanda – dove l’imposta sul reddito delle imprese è al 12,5 per cento – e Amazon, che ha sede legale in Lussemburgo.
Ecco perché esistono due società Google italiane, che però si considerano solamente centri di costo per la vendita degli spazi pubblicitari per conto di Google Irlanda. La fattura di vendita dello spazio acquistato è emessa da Google Irlanda, dove si trasferisce la maggior parte della base imponibile. Così Google Italia nel 2012 ha pagato solo 1.530.000 euro di Ires, l’imposta italiana sul reddito delle società.
È qui che entra in gioco il “panino olandese”. I redditi trasferiti a Google Irlanda, non tassati, fanno un altro viaggio e passano sotto forma di royalty (pagamenti per lo sfruttamento intellettuale di determinati prodotti, come licenze e brevetti) ad una società olandese. La destinazione non è casuale: infatti, anche il passaggio di royalty tra Irlanda e Olanda non è tassato.
Il giro di soldi non è ancora finito. La società olandese ritrasferisce i ricavi a una seconda società irlandese, ed ecco il perché del nome double Irish. Questa società, però, è fiscalmente residente alle Bermuda, ancor più paradiso fiscale. È un altro stratagemma perfetto: per la legge irlandese, se i mezzi per produrre reddito sono in possesso di una società estera non sono tassati in Irlanda, ma nello Stato in questione. E così proprio una società con sede alle Bermuda è quella che detiene le licenze e i brevetti di Google, fondamentali per i suoi guadagni.
E così, giunti alla fine di questo giro del mondo in 80 modi per pagare meno tasse, l’unico posto in cui Google paga imposte sul reddito sono di fatto le isole Bermuda. Che hanno un’aliquota del 2,5 per cento.
Federico Thoman