Mediobanca rinvia l’assemblea prevista per oggi, lunedì 16 maggio, in cui i soci avrebbero dovuto esprimersi sull’Ops su Banca Generali. Così ha deciso il cda alla vigilia dell’incontro: il consigliere Sandro Panizza è stato l’unico contrario al rinvio e la vice presidente Sabrina Pucci l’unica astenuta, entrambi in quota Delfin. Secondo le stime l’operazione non avrebbe raggiunto il voto favorevole del 50% + 1 delle azioni dei soci presenti. Se ne riparlerà il 25 settembre. O forse no. Per quella data – salvo imprevisti in caso di successo dell’Ops di Montepaschi su Mediobanca, sarà la stessa banca senese a decidere se andare avanti. In caso contrario, Piazzetta Cuccia non sarà più sotto passivity rule (una regola per salvaguardare la contendibilità delle società quotate impedendo che gli amministratori attuino “iniziative difensive” per scongiurare offerte e scalate esterne) e al cda non sarà più necessaria l’approvazione dei soci.

Il rinvio – «L’attività di engagement pre-assembleare ha confermato un largo supporto del mercato all’offerta, testimoniato anche dai pareri favorevoli unanimi dei proxy advisor (aziende che forniscono consulenza agli investitori istituzionali su come votare nelle assemblee, ndr.)», ha dichiarato ieri 15 maggio il cda di Mediobanca dopo il consiglio straordinario della mattina. «La decisione è motivata dall’esigenza di acquisire ulteriori valutazioni da Assicurazioni Generali», ha scritto l’ad Alberto Nagel in una lettera ai dipendenti. «Alcuni soci titolari di un investimento sia in Mediobanca sia in Generali – scrivevano da Piazzetta Cuccia -, hanno sottolineato l’esigenza di conoscere le valutazioni e l’orientamento di Generali rispetto alla proposta di Mediobanca al fine di potersi esprimere nell’assemblea della stessa Mediobanca, anche considerando che l’adesione di Generali è essenziale per il perfezionamento dell’operazione». Il Leone delle assicurazioni, infatti, controlla più del 50% della società di private banking e la soglia minima di adesione all’offerta è anche qui del 50% del capitale più un’azione.

Caltagirone – Il 3 giugno Francesco Gaetano Caltagirone aveva già chiesto il rinvio dell’assemblea per avere più informazioni sul dossier. L’ad Alberto Nagel rifiutò. «La richiesta conferma l’evidente conflitto di interessi del socio Caltagirone», commentavano fonti del Sole24Ore. Caltagirone è infatti titolare del 9,9% in Montepaschi, del 6,2% in Generali e del 10% in Mediobanca (dopo il rastrellamento di titoli in Borsa degli ultimi 40 giorni, che ha tolto dal mercato almeno l’11% del capitale). «Procedere con la convocazione dell’assemblea degli azionisti prima della negoziazione degli accordi distributivi, processo che potrebbe richiedere mesi di lavoro, è una scelta fatta nell’esclusivo interesse alla trasparenza nei confronti del mercato, delle autorità di vigilanza e della controparte – si diceva -. E non è chiaro perché la controparte dovrebbe negoziare degli accordi distribuitivi senza alcuna certezza in ordine al sostegno degli azionisti di Mediobanca all’offerta». Ieri il dietro front: di fronte alla carenza di voti e al possibile fallimento dell’operazione, anche il cda teme. Il rischio è troppo forte per Mediobanca, che pur di non compromettere il progetto si è detta pronta anche a liquidare la storica partecipazione in Generali (14%).

I no e le astensioni – Oltre al no di Caltagirone (10%), avrebbe pesato l’astensione di Delfin (20%), del 5,5% delle Casse pensionistiche (Enasacro, Enpam, Cassa Forense), di Minozzi-Gavio (0,5%) e di Amundi – Crédit Agricole (0,8%). Poi Unicredit (1,9%), Benetton (2,2%) e JP Morgan e Jefferies (2%). In sintesi, si sarebbe superato abbondantemente il 42%. E considerate le partecipazioni (stimate attorno all’80%), il numero sarebbe bastato a far saltare l’operazione.

I nuovi equilibri – L’episodio si inserisce in un quadro complesso che da mesi sta riscrivendo gli equilibri del mondo finanziario italiano ed europeo attraverso operazioni di fusione e acquisizione di gruppi bancari e assicurativi. A novembre 2024 il 15% del Mef in Mps è stato ripartito tra Caltagirone, Delfin, Bpm e Anima. Il 24 gennaio, il rinato Montepaschi aveva lanciato un’Ops totale (dal valore 13,3 miliardi) per la conquista della Mediobanca. «Operazione di mercato», aveva commentato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che intanto aveva accolto con favore l’aggregazione tra Banco popolare e Bpm a formazione di un terzo polo al Nord. Questo avrebbe riequilibrato il peso dei due colossi Intesa e Unicredit, entrambi nati da aggregazioni successive di ex gruppi bancari pubblici. Lo scontento del governo però è arrivata quando l’amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, aveva lanciato due proposte di conquista: una su Commerzbank (vecchio interlocutore privilegiato in Germania del Banco di Roma e poi di Capitalia, oggi in Unicredit), l’altra proprio su Bpm. Nel caso della Bpm l’entrata in scena di Unicredit avrebbe disturbato la creazione del terzo polo bancario (il Mef possiede ancora il 15% di Montepaschi), e ancora oggi con l’applicazione del Golden Power, l’esecutivo sta cercando di contrastare l’operazione. In questo contesto, le famiglia Caltagirone e Del Vecchio rivestono un ruolo centrale. I Caltagirone detengono il 9,9% di Mps, il 10,05 di Generali e il 9,9% di Mediobanca. I Del Vecchio, attraverso Delfin, hanno il 9,8% di Mps, il 2,7 di Unicredit e il 19,9% di Mediobanca. Negli ultimi anni, Nagel ha cercato di contrastare le ambizioni dei Caltagirone e del Del Vecchio. Dal 2018, in particolare, i due gruppi privati hanno cercato di conquistare posizioni ancora più dominanti in Mediobanca che, tra le altre cose, controlla il pacchetto di azioni di riferimento per le Generali (13,1 per cento).