In principio fu Netflix. Una piattaforma dalla portata rivoluzionaria. Non solo per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche che ha portato con sé come piattaforma di video-on-demand. Ma anche nel modo stesso di “consumare” i contenuti: veloce, dinamico, tutti in una volta. Dal ‘binge watching‘ in senso stretto, la visione a dosi massicce, si è passati poi alla fruizione di massa, a serie tv che diventano fenomeni social, allo streaming che sostituisce la televisione. Il tutto amplificato dalla pandemia che ha portato con sé un aumento globale di sottoscrizioni, con le persone costrette a rimanere in casa e la voglia di intrattenimento che – inizialmente – veniva quasi e solo esclusivamente proposto dalle piattaforme on demand. Le cose ora però stanno cambiando, così come le prospettive. Se prima si parlava di “guerra dello streaming“, ora il settore sembra essersi stabilizzato, accentrandosi sui contenuti, ormai padroni indiscussi della scena. I costi di produzione di questi stessi contenuti rischiano però di non essere sostenuti dalle entrate generate dagli abbonamenti, che rispetto alle prospettive e ai trend degli ultimi due anni ora sono in calo. La spiegazione, secondo gli analisti dell’Economist, potrebbe essere racchiusa in tre diversi fattori: una “sbornia” di serie tv e film data dal ‘binge-watching’ durante la pandemia, ritardi nell’uscita di contenuti attesi ma spesso posticipati e infine l’eliminazione delle prove gratuite alla sottoscrizione di certi servizi, come è accaduto nel caso di  Apple Tv+.

La guerra dello streaming – Da quando sono apparse le prime piattaforme di streaming on-demand, è entrata nel linguaggio comune anche la locuzione “streaming war” (guerra dello streaming) per sottolineare come questo settore fosse caratterizzato da dinamiche altamente competitive. All’inizio le piattaforme erano poche e seguendo le logiche della cosiddetta “attention economy” – l’economia dell’attenzione, secondo cui proprio questa è una risorsa scarsa su cui l’intrattenimento principalmente si fonda – puntavano ad attirare l’attenzione degli utenti. Col tempo però, le piattaforme di streaming si sono moltiplicate. Alcune sono state create senza ingranare mai e rimanendo nella propria nicchia di mercato, altri invece hanno sfidato il (semi)monopolio di Netflix. Le stime però danno gli abbonamenti in decrescita. Prendendo come esempio proprio Netflix, gli analisti di Morgan Stanley hanno stimato che la piattaforma di streaming per eccellenza finirà il 2024 con 260 milioni di utenti globali, in calo dalla sua precedente stima di 300 milioni. Cifre che preoccupano visti i costi di produzione che stanno aumentando, con serie tv e film che coinvolgono super star e che si spingono anche alla sperimentazione nuovi – costosi – modi di fare cinema.

‘Content is king’ – Uno dei mantra che governa il settore dello streaming, così come quello delle nuove tecnologie, è che i contenuti sono il centro di tutto, i “re”. Vale a dire, sono i contenuti – siano essi prodotti editoriali o creativi – che guidano le scelte degli utenti, non la piattaforma su cui vengono distribuiti. A parlare per primo di questo concetto fu Bill Gates alla fine degli anni ’90 in un breve articolo intitolato appunto ‘Content is king‘. Secondo Gates di lì a poco tutto il settore del web – di cui è lui stesso pioniere – si sarebbe basato sulla creazione, produzione e “vendita” di contenuti, il vero valore aggiunto per qualsiasi servizio online. E così è stato. Basta guardare ai motori di ricerca, ai social e anche ai servizi di streaming. Questo è vero a maggior ragione guardando alle diverse offerte che ci sono oggi sulle varie piattaforme. Dai contenuti originali, alle co-produzioni, dai titoli acquisiti – magari con contratti a tempo – a quelli che vengono riproposti come prodotti di archivio. Quello su cui si punta è sempre il differenziarsi dai propri competitor: tanti titoli, tanta offerta e l’algoritmo che aiuta a canalizzare un contenuto piuttosto che un altro in base ai propri interessi. Per questo molte major che hanno creato le proprie piattaforme di streaming per proporre i loro contenuti, preferiscono promuovere nuovi prodotti sui contenitori online invece che distribuirli al cinema. Così, da un lato, ne hanno pieno controllo ma allo stesso tempo contribuiscono al circolo vizioso che vede contrapporsi lo streaming ai settori multimediali tradizionali come cinema e televisione.

L’economia ad abbonamento – Uno dei fattori che caratterizza questo settore è il suo modello di business che si basa per lo più sugli abbonamenti, quindi sugli utenti. Così si tratta di guadagnarsi l’attenzione di un utente, che porta poi alla sottoscrizione di un abbonamento, e sperare che questo si fidelizzi. I prezzi sono quasi tutti ormai allineati: oscillano di poco in una forbice che va dai pochi euro al mese fino a soluzioni cosiddette di “bundling” per cui non si sottoscrive l’abbonamento alla piattaforma stessa ma a un pacchetto di servizi con un beneficio in termini di prezzo. Ne sono esempi i servizi di streaming di Amazon e di Apple – due colossi nativi digitali ma non certo nativi nella produzione audiovisiva – che per promuovere le proprie piattaforme di video-on-demand le hanno associato ad altri servizi, andando a “spalmare” il prezzo dell’abbonamento su più attività. Gli utenti quindi hanno accesso ad ancor più servizi di quelli che si aspettavano con la sottoscrizione a una singola piattaforma. Ciò da un lato potrebbe essere un bene per il posizionamento della stessa azienda sul mercato – come azienda leader del settore –  ma allo stesso tempo potrebbe distoglierla dal precedente mercato di riferimento.

Dimmi che piattaforma usi e ti dirò chi sei – A differenziare una piattaforma dall’altra, quindi, sono proprio i contenuti. Si vuole vedere un film d’autore? Ecco Mubi. Un cartone Pixar? C’è Disney+. Un contenuto targato Universal? È arrivato Peacock. Il mercato dello streaming è sempre più sfaccettato. Le proposte si stanno differenziando, quasi come se ogni piattaforme cercasse la sua nicchia di mercato,  e quindi di utenti. E gli utenti, come sottolinea l’Economist, stanno diventando sempre più esigenti: non si è fedeli a una piattaforma, ma a un contenuto. Così capita che ci si abboni per seguire la serie o il film del momento e poi ci si disabboni pochi minuti dopo la sua fine. Un trend nuovo, questo, ma che in qualche modo costituisce l’esasperazione del modello di business stesso di queste piattaforme. Un modello, che, vista l’inaspettata evoluzione che il settore sta prendendo, deve ancora consolidarsi.