È passata poco meno di una settimana dall’annuncio dell’accordo tra i Paesi dell’Opec, l’organizzazione degli esportatori di petrolio, per tagliare la loro produzione complessiva di 700mila barili fino ad un totale di 32,5 milioni. Sebbene l’Opec controlli ad oggi solo il 40% dell’output totale di oro nero, l’effetto del solo annuncio dell’accordo sembra aver riportato il prezzo del greggio intorno alla quota psicologica dei 50 dollari per barile. In attesa che l’intesa sia approvata ufficialmente al meeting ufficiale di novembre a Vienna, molti analisti si interrogano su vincitori, vinti e potenziali mine vaganti dell’accordo di Algeri, che vorrebbe mettere fine a due anni vissuti pericolosamente dall’oro nero.
I VINCITORI
- L’Iran. Il vero trionfatore dell’accordo. Tanto quanto negli scorsi anni era stato uno dei paesi a soffrire di più per il basso prezzo del greggio. Limitato dalle sanzioni internazionali, non aveva potuto difendere la sua quota di mercato aumentando la produzione mentre il barile andava a picco. Ora, mentre gli altri produttori Opec dovranno limare la loro produzione, il paese degli ayatollah sarà l’unico a poterla ancora aumentare fino a recuperare la vecchia quota di mercato. Mentre i prezzi, con ogni probabilità, saliranno. Due vittorie in una sola partita.
- Le banche centrali. La Banca Centrale Europea e la Bank of Japan stanno combattendo ormai da anni una lotta senza risparmio di munizioni contro la deflazione. Il presidente Mario Draghi aveva solo qualche mese fa elencato proprio il basso prezzo del greggio tra le varie forze che ‘cospiravano’ per deprimere i prezzi nell’Eurozona. Ora un ritorno del barile di Brent in area 60 dollari potrebbe dare un aiuto insperato alle autorità monetarie nel loro sforzo per stimolare l’inflazione verso il 2% annuo, anche se difficilmente la sola ripresa dei prezzi energetici sarà sufficiente a raggiungere l’obiettivo.
- Big Oil. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da vacche magre per le grandi compagnie petrolifere mondiali. I giganti Exxon, BP, Chevron ed Eni hanno visto assottigliarsi i loro margini di guadagno sempre di più e sono stati costretti a tagliare su tutto: investimenti, costi, personale e rami d’azienda. Spesso non è stato sufficiente: perdite e debito si sono accumulati, minacciando anche la capacità di pagare dividendi. I nuovi piani industriali delle società ‘Big Oil’ prevedono livelli di break-even (il prezzo del greggio necessario a mantenere in equilibrio i conti) molto bassi: l’Eni ad esempio lo ha calcolato a 27 dollari al barile. Con il taglio della produzione Opec i bilanci delle grandi aziende del settore potrebbero rimbalzare verso l’utile.
- L’Arabia Saudita. Riyad è stata la vera regista dell’aumento dell’output negli ultimi anni. Si dice che l’obiettivo fosse estromettere dal mercato i produttori americani di shale oil (il greggio prodotto a partire dalle rocce di scisto), facendo leva sui loro alti costi di produzione. Se questo era davvero il piano, molte cose sono andate storte: la resistenza ai prezzi bassi dei produttori di shale, l’indebolimento della domanda mondiale di greggio e il rientro sul mercato dell’Iran, grande nemico geopolitico dei sauditi, hanno spinto il prezzo fino al minimo di 26 dollari nel febbraio 2016. A pagarne le spese è stato anche il bilancio dell’Arabia Saudita, che ha visto un deficit da record. Il governo di Riyad è stato quindi obbligato a un ambizioso (ma politicamente costoso) piano di ammodernamento economico e a promettere la quotazione della compagnia Saudi Aramco. Ora i sauditi hanno gettato la spugna, senza aver estromesso lo shale oil e favorendo i nemici di sempre, gli iraniani.
- Le industrie automobilistiche e le compagnie aeree. I prezzi dei carburanti bassi hanno aiutato i produttori di automobili a riprendersi dalla crisi e a raggiungere i continui record di immatricolazioni degli ultimi mesi. Allo stesso tempo le compagnie aeree hanno avuto un insperato aiuto nel sostenere i loro traballanti bilanci proprio dal costo del carburante, che pesa sui loro bilanci per oltre il 15%. Ora la festa potrebbe essere finita.
- L’India. L’economia con la crescita ad oggi più dinamica del mondo è anche una delle più dipendenti dalle importazioni di materie prime, petrolio e gas in primis. I bassi prezzi dell’energia hanno consentito all’economia del subcontinente di alleviare il suo cronico deficit commerciale e di arrivare a crescere più della Cina. Un primato che potrebbe ora avere vita breve.
LE MINE VAGANTI
- I produttori di shale oil. La vera scheggia impazzita del mercato petrolifero mondiale. L’olio di scisto prima ha reso gli Stati Uniti il primo produttore mondiale di greggio, poi ha scatenato la guerra dei prezzi da parte dell’Arabia Saudita e ora minaccia rendere inefficace l’accordo Opec. Molti estrattori americani di shale oil hanno dovuto sospendere l’attività a causa del basso prezzo del greggio, ma non tutti. E ora, se il prezzo del barile torna sopra 60 dollari, possono tornare in scena, aumentando l’offerta mondiale e tornando a far calare il costo dell’oro nero.
- La Cina. Vero arbitro della domanda mondiale. Il rallentamento delle sue industrie ha contribuito nel 2015 ad aggravare la caduta dei prezzi del greggio, ma nello stesso tempo il suo sforzo per costruirsi una riserva strategica sul modello di quella americana ha aiutato a risollevare e tenere stabili i prezzi negli ultimi mesi. Ma con un’economia sempre meno orientata alla manifattura e una riserva strategica ormai quasi completa, Pechino potrebbe tornare a remare contro l’aumento dei prezzi.
- Le energie rinnovabili. Sempre più economici ed efficienti, eolico e solare potrebbero ritrovare ora gli investimenti che erano mancati in questi due anni di greggio sotto i 45 dollari. A lungo termine potrebbero assicurarsi una fetta sempre più grande della domanda mondiale di energia, dando inizio ad un nuovo surplus di petrolio.
Antonio Lusardi