Alla base della scelta di realizzare nuovi investimenti all’estero, per 8 imprese multinazionali italiane su 10 non c’è la ricerca opportunistica di un più basso costo del lavoro, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare. Ma la volontà di accedere a nuovi e più promettenti mercati. A dirlo è l’ultimo report dell’Istat sulle nostre multinazionali, impegnate nella competizione economica globale con obiettivi dichiaratamente ambiziosi, ma con una struttura che, se paragonata a quella delle concorrenti, si rivela decisamente più modesta e ancora troppo “tradizionale”.

Nel 2011, anno di riferimento del report, l’Italia conta infatti 21.682 controllate estere. La Francia, per fare un confronto,secondo l’ultimo rapporto dell’Insee relativo al 2010 ne ha 30.500. Una differenza tutto sommato non così alta, che però aumenta notevolmente se si confrontano altri due numeri. Quello degli addetti impiegati e quello dei miliardi fatturati. I transalpini conducono con 4,6 milioni di lavoratori contro 1,7 milioni, e il giro d’affari delle loro multinazionali è di 992,6 miliardi di euro, contro i 510 delle italiane.

Le caratteristiche distintive delle multinazionali italiane attive nel settore industriale sono state definite, sulla base di dati ancora più recenti, dall’Ufficio studi di Mediobanca, con un’analisi comparativa a livello mondiale. Oltre che per la loro piccola dimensione – una media di 78,3 addetti rispetto ai 270 delle omologhe francesi – secondo Mediobanca le multinazionali italiane si differenziano in Europa per essere controllate dallo Stato in un numero di casi quattro volte superiore alla media delle loro concorrenti, somigliando di più sotto questo profilo alle multinazionali asiatiche e russe che non a quelle tedesche o francesi. Allo stesso modo, il controllo societario ricade nelle mani di singole famiglie nel doppio dei casi rispetto alla media europea.

L’unica multinazionale italiana ad avere l’assetto proprietario tipico della public company, cioè quello dominante in tutta Europa – grandi dimensioni, tanti proprietari, separazione tra proprietà e governo dell’impresa, natura manageriale, forte dipendenza dal mercato, spiccata capacità di attirare risorse – è la Prysmian, ex Pirelli Cavi. Che detiene anche un altro primato: essere leader mondiale nel settore dei cavi e dei sistemi ad alta tecnologia per l’energia e le telecomunicazioni, con ricavi pari a quasi 8 miliardi di euro nel 2012 e una capitalizzazione azionaria che sfiora i 4 miliardi. E pensare che nel 2002, per rilevare la Divisione Cavi della Pirelli, la banche italiane non erano state disposte a offrire più di 700 milioni di euro, secondo quanto dichiarato da Marco Tronchetti Provera anni dopo, in seguito all’intervento di Goldman Sachs.

Il caso Prysmian è un’eccezione di successo, che nella sua anomalia può far riflettere per contrasto sugli svantaggi competitivi tipici delle multinazionali italiane. Mostra infatti che la presenza di un socio italiano “forte” (Stato o famiglia) non è indispensabile, e che la proprietà diffusa non è necessariamente un ostacolo allo sviluppo globale di una multinazionale con sede in Italia, né tantomeno una minaccia alla sua italianità. Anzi. Proprio la presenza di investitori finanziari internazionali sembra essere stata la forza che ha permesso a Prysmian di crescere e acquisire società concorrenti mantenendo sede e stabilimenti in Italia, fino a trasformarla da ramo d’azienda che Pirelli non avrebbe potuto più sostenere, a causa dei debiti contratti per ottenere il controllo di Telecom, in primo produttore mondiale di cavi elettrici e in fibra ottica. Insomma, un’operazione riuscita di “sprovincializzazione”, che dimostra come l’internazionalizzazione vera, fatta per conquistare nuovi mercati e non solo per ridurre il costo del lavoro, non coincida e non si esaurisca con la delocalizzazione o la chiusura degli impianti nazionali, ma debba coinvolgere in profondità anche la struttura proprietaria e la cultura di governo dell’impresa stessa.

Un fatturato pari a quello di Prysmian, sempre nel 2012, è stato realizzato da un’altra multinazionale ad azionariato italiano, con sede in Benelux: la Ferrero, operativa in un settore completamente diverso e con una tradizione tipicamente “familiare”. La Ferrero ha iniziato a espandersi oltre confine nei lontani anni Settanta. Nel 1985 era già presente in tutto il mondo con 11 società di distribuzione, 13 filiali in Germania e 9 in Francia. Aveva esteso anche la sua rete produttiva, aprendo stabilimenti in Ecuador e Portorico per la produzione delle “tic tac”. I primi dirigenti dell’azienda sono gli stessi Ferrero (Pietro, il fratello Giovanni, il figlio Michele), ma accanto a loro emerge nel tempo uno strato di top manager estranei alla famiglia, come Amilcare Dogliotti, Severino Chiesa, Federico Troyer, Roberto Dorigo ed Enrico Bologna. Successivamente, con il trasferimento della Ferrero International SA in Lussemburgo nel 1997, entra in azienda la terza generazione: Pietro e Giovanni Ferrero, figli di Michele, assumono via via posti di crescente responsabilità, sino a ricoprire la carica di Ceo. Ma nel lungo periodo, più che sulla dinastia familiare in senso stretto, la crescita e lo sviluppo della Ferrero si fondano sull’espansione della domanda, su una diversificazione strettamente correlata al core business aziendale (il settore dolciario), su continue innovazioni di prodotto e di processo e su massicci investimenti in impianti produttivi, ricerca e sviluppo, oltre che sulla precoce internazionalizzazione di un’impresa che rifiuta di quotarsi in Borsa.

Tra le multinazionali controllate dallo Stato, invece, la regina indiscussa è l’Eni. Se è vero che le storiche “sette sorelle” del petrolio si sono oggi ridotte a quattro (Royal Dutch Shell, ExxonMobil, BP e Chevron), come scrive Mediobanca, e che la classifica per totale attivo vede al secondo posto PetroChina e al quarto Petrobras, l’Eni si colloca in nona posizione. Il suo ad, Paolo Scaroni, guadagna tra compensi fissi e bonus circa 6 milioni di euro l’anno. Non sarà ricco quanto Michele Ferrero, l’italiano nella posizione più alta della graduatoria mondiale di Bloomberg, al 27° posto nel 2013 con un patrimonio personale di 25,5 miliardi di dollari, ma di sicuro anche questa cifra rientra tra i primati, i pregi e i difetti (dipende dai punti di vista) del profilo italiano delle multinazionali.

Davide Gangale