Diciannove miliardi bloccati nelle tasche dell’Unione europea per almeno un altro mese. Entro il 30 aprile il governo italiano dovrà dimostrare alla Commissione di Bruxelles il raggiungimento dei 55 obiettivi del Piano nazionale di recupero e resilienza (Pnrr) che avevano come scadenza la fine del 2022. Tre dossier sono in discussione: le concessioni portuali che non rispondono ai criteri dell’Antitrust europeo, alcuni interventi sul teleriscaldamento e la presenza di misure che sarebbero incompatibili con la natura del Pnrr. In particolare spiccano i progetti per lo stadio di Firenze e il «Bosco dello sport» a Venezia. Dario Nardella e Luigi Brugnaro, rispettivamente sindaci di Firenze e di Venezia, si difendono: «Se non meritano questi progetti, quasi tutto il Pnrr non dovrebbe essere autorizzato», queste le parole di Nardella.
C’è forse anche un problema di trasparenza. La fondazione Openpolis sottolinea che il governo non avrebbe attivato la ReGis, la banca dati per monitorare l’avanzamento del Pnrr. Doveva essere operativa entro la fine del 2021, ma così non sarebbe stato. A pagarne le conseguenze è stata la Corte dei Conti, che ha dovuto chiedere ai singoli ministeri i dati necessari per capire come sono stati spesi i fondi europei (solo il 6% dei 67 miliardi già arrivati sarebbe stato già speso). Vincenzo Smaldore, responsabile dei contenuti della fondazione, spiega a Il Manifesto che la mancanza di trasparenza sui dati di spesa ha fatto perdere traccia di quali obiettivi siano stati davvero raggiunti: «Il primo trimestre che scade domani prevede 10 scadenze del cui completamento non c’è traccia».
Scadenza 2026 – Messi in dubbio gli obiettivi sul lungo periodo. Secondo Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei, è in corso una verifica della fattibilità di alcuni progetti previsti per il 2026. Il dubbio del ministro riflette le perplessità che la stessa Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, aveva espresso prima dell’inizio del mandato: l’obiettivo era la rinegoziazione del Pnrr, ma il piano non è mai andato in porto.
Forti perplessità anche da Carlo Luzzatto, amministratore di Pizzarotti, grandi contractor di opere pubbliche. «Tutti sapevano che quei 200 miliardi da spendere erano fuori portata per l’Italia», ha riferito a La Stampa.
Per uscire dall’impasse la presidente del Consiglio starebbe pianificando una rinegoziazione del Piano, come peraltro annunciato da tempo. L’Italia non sarebbe l’unico paese ad avere chiesto modifiche: l’hanno fatto con successo Germania, Finlandia e Lussemburgo.
Si apre così uno spiraglio per il governo italiano, che sull’argomento viene attaccato duramente dalle opposizioni. Partito democratico e Verdi chiedono a Meloni e Fitto di riferire in Parlamento sul raggiungimento degli obiettivi.
Nello scontro a Roma fra governo e opposizione si inserisce anche Beppe Sala, sindaco di Milano. «Diamo in fondi a chi li sa investire», sostiene il primo cittadino, nella speranza di imprimere slancio ai «progetti nel cassetto». Non tutti sono d’accordo con il protagonismo di Milano. Dal Roberto Lagalla, sindaco di Palermo, arriva la risposta: «Milano non è la media del Paese. Anche il ministro Fitto ha fatto riferimento a situazioni di ritardo che riguardano l’intero Paese».