La sua è una vita in rincorsa. Aveva un lavoro. Perso. Aveva una migliore amica. Persa. Aveva la voglia di non arrendersi di fronte le difficoltà. Persa. Sara riavvolge la storia dei suoi ultimi dieci anni. Passa in rassegna le occasioni avute, quelle mancate, i rimpianti e le delusioni, molte. Distesa sul divano di casa, la madre in cucina che le prepara il pranzo, a 33 anni arriva a una conclusione impietosa: «La precarietà divide, anche a livello sociale. Su un posto di lavoro gli altri precari smettono di salutarti se sanno che il tuo contratto sta per scadere, sei come un’appestata».

Fuori dalle finestre oscurate con delle timide tendine rosa, il sole della periferia romana nel solleone non lascia momenti di tregua. Il caldo che si sprigiona nella casa è paragonabile solo alla disillusione cocente di una ragazza che, superati i trent’anni, si ritrova con nulla, pur avendo fatto qualsiasi lavoro. Sara ne ha cambiati molti, forse troppi. Si è cimentata in qualsiasi proposta le permettesse di avere un’occupazione, senza scrupoli riguardo il suo percorso di studi. Ha lavorato come comunicatrice, correttrice di bozze, addetta all’ideazione di progetti europei, insegnante, animatrice. Ogni volta una frenata e la caduta, la tristezza e la forza d’animo di ricominciare in salita. E intanto il tempo è passato. Le aspirazioni sono diventate cinismo, i sogni necessità di denaro, anche solo quelli per fare la spesa. Crisi? Mercato chiuso? No, non possono essere questi i motivi che hanno scatenato l’instabilità nella vita di Sara, che guarda nel vuoto e non sa cosa dire: «Sono stanca, sono passata alla fase in cui accetterei qualsiasi cosa. Anche un lavoro da segreteria. Sono di nuovo senza far niente. Una spiegazione? Boh».

A terra sul pavimento Sara si è costruita un piccolo ufficio. Un pc, una stampante, fogli sparsi sul tappeto. Sta studiando per sostenere la prova scritta del concorsone per insegnanti, l’ultimo abito che tenta di indossare per reinventarsi. Le sue inclinazioni erano del tutto diverse. Coltivava l’ambizione di diventare una scrittrice quando si è laureata in Lettere dieci anni fa. Massimo dei voti, lode e una tesi preparata a Parigi. Alla discussione, dopo gli applausi della commissione, la sua relatrice le lasciò un biglietto nella mano. C’era scritto l’indirizzo di un professore francese. Le avrebbe offerto un dottorato in Francia, se solo avesse voluto. E invece Sara scelse l’Italia, a 23 anni. Dopotutto, a quell’età i soldi non rappresentano una priorità: «All’Università immaginavo tante possibilità. Mi vedevo in diversi settori. Le strade erano aperte e non mi importava essere pagata poco». Così Sara spostò la sua attenzione sul servizio civile da poco ultimato. Le offrirono un contratto di quattro mesi come redattrice del giornale dell’Arci. Paga esigua, ma all’epoca l’aver trovato lavoro le lasciava presagire un futuro costruito sulle sue capacità: «Il giorno prima della scadenza del contratto mi dissero che il mattino seguente non avrei dovuto presentarmi. Contratto non rinnovato. Finita, come se nulla fosse. Naturalmente ti avvisano ventiquattro ore prima della scadenza, così dai il massimo fino alla fine».

Sara però ha un carattere incendiario. E’ una ribelle che combatte ogni giorno contro un destino spietato. Lo mostra ogni volta che racconta un episodio della sua vita. Spesso stringe i pugni quando ricorda le difficoltà che ha dovuto affrontare, quasi come se volesse assestare un colpo alle delusioni accumulate. «Ricominciai a studiare perché quando perdi un lavoro devi reinventarti. Vedevo che tutte le mie domande cadevano nel dimenticatoio, così lasciai da parte la mia laurea e cercai di indirizzarmi verso un nuovo settore. Se continui a collezionare rifiuti rischi di arrivare alla depressione». Sara prese di petto la sua vita. Lottava per sentirsi viva.

Cominciò a scrivere per gli altri e non più per se stessa. Entrò nell’ufficio della Lapis, l’agenzia dell’Arci che si occupa di progetti europei. Da scrittrice diventò una progettista che redigeva piani d’investimento per le risorse che arrivavano dall’Unione europea. Un salto nel vuoto, praticamente. Non aveva una preparazione adatta, ma non si fanno molti calcoli pur di strappare un contratto. Il suo era a progetto, come quelli dei call center: «Era un lavoro che per una laureata in Lettere non c’entrava niente, ma era l’unica offerta che avevo. Non potevo rifiutare». Il suo contratto veniva rinnovato con cadenza regolare mentre lei, piano piano, diventava una professionista del settore. Dopo tre anni era ancora lì, con un bagaglio culturale nuovo.

Una malattia però allontanò Sara dall’ufficio. Chiese di lavorare da casa, con la collaborazione dei suoi colleghi. Qualcosa però non funzionò. Sara non riceveva con regolarità le disposizioni dei suoi capi, veniva coinvolta sempre di meno. Si era creata una frizione inspiegabile con gli altri. «Ero costretta a casa. A tutti può capitare di ammalarsi, quindi ero serena perché la mia assenza aveva una giustificazione». Al suo ritorno, dopo tre mesi, la sorpresa. Il direttore la chiamò in privato e le annunciò che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato. Fine dei giochi. Alle domande insistenti di Sara sulle motivazioni di quella scelta la risposta era sempre la stessa: «Dobbiamo tagliare, non ci sono abbastanza fondi per pagare tutti». Perché proprio lei? Aveva accumulato una certa esperienza con il tempo, il suo lavoro era sempre stato apprezzato. Perché? Sara non riusciva proprio a spiegarselo. Il motivo fu chiaro dopo qualche settimana. Alla Lapis bisognava liberarsi di un contratto e le principali indiziate erano due: lei e una sua collega, che negli anni era diventata anche sua amica. Durante la sua assenza Sara inviava a lei il lavoro che sosteneva da casa. Quei progetti però non arrivarono mai sulla scrivania del direttore. Sapendo che una persona sarebbe stata licenziata, l’amica di Sara ritardò la consegna dei lavori, a volte li teneva nascosti. Solo per metterla in cattiva luce. E’ una ferita ancora aperta, che brucia se ci si appoggia sopra il ricordo: «Questo è l’effetto della precarietà. Non è solo il lavoro a essere precario, ma tutto: le relazioni sociali, ogni azione che compi. In Italia siamo arrivati al punto che è impossibile trovare un’altra occupazione se perdi un posto, così la gente si aggrappa come può a ciò che ha ottenuto, anche a costo di tradire le persone. Se ci ripenso mi viene ancora lo schifo».

Aveva uno stipendio di 1200 euro al mese. Sparito. Cominciava a intravedere l’indipendenza economica. Polverizzata. Tre anni buttati via, con un colpo di scopa, come si fa con la polvere. Sara non poteva considerarsi giovane e non poteva più accontentarsi dei lavoretti. Aveva provato di tutto, era giunto il tempo della stabilità. Ma dove? Con chi? Ricominciò il giro di mail e curriculum. E’ una giostra che gira all’infinito. Un giorno scendi, ma lei continua a girare, tanto è lì che si ritorna. Prima o poi.

Le aveva provate tutte, e si ritrovava di nuovo al punto di partenza, come un gioco dell’oca interminabile. Sara cominciava a perdere la speranza. Alcune telefonate agli amici ed ecco un ripiego: animatrice per bambini, cinquanta euro a festa e la certezza di lavorare almeno nel week end. Aveva toccato il fondo: «Purtroppo stavo entrando in depressione. Non per il lavoro che facevo, che non consideravo umiliante. Era una retrocessione. Poi vedevo tutti quei bambini giocare e pensavo che alla mia età avrei dovuto occuparmi dei miei e non di quelli degli altri. Un giorno scoppiai a piangere a questo pensiero».

Sara alternava lavoretti a pagamento ad altri gratuiti, «pur di fare qualcosa». Nel frattempo scrisse un libro, “Net@twork, storie di lotte di uomini e donne in Rete” che ha pubblicato con la casa editrice della CGIL. Aveva anche un curriculum da insegnante, decise di sfruttarlo. Aggiornò le graduatorie del ministero dell’Istruzione. Dopo un po’ arrivò la chiamata per una supplenza. Poi un’altra e un’altra ancora. Qualcosa iniziava a muoversi. A Sara si aprì una strada: l’insegnamento.

«Ahò, che hai preso le cartucce per la stampante», intima Sara al fratello appena entrato.  «Guarda che sono originali, ho speso venti euro», sottolinea con forza lui. «Te li do quando li ho», ribatte Sara con altrettanta energia. A 33 anni è di nuovo sui libri a studiare: «Sono stanca, non me ne importa più. Se mi offrissero un’occasione dietro raccomandazione accetterei subito. Prima non ci avrei pensato neanche lontanamente, ma adesso ho una certa età e devo pensare seriamente a costruirmi un mio futuro». Si arriva fiaccati all’appuntamento con la maturità, sfiancati dall’inseguimento di una stabilità che sembra non arrivare mai. «Il pranzo è pronto!», per fortuna che ci sono i genitori. La mamma le prepara i pasti, le rassetta anche la camera. Ma Sara non è più una bambina e non può accettarlo.

«Ho smesso di mandare curriculum perché tanto non serve più», riflette cercando di convincersi con tono sconsolato. Poi incalza e la voce s’accende: «Ma chi li legge? Prima stavo ore davanti al pc a mandare mail. Si può vivere così?».

Intanto Sara fa i conti con la sua età, con il tempo che passa. Vorrebbe una famiglia e una casa perché avverte come necessario il trasferimento della sua vita in una nuova fase: «Mi accorgo che i miei ritmi naturali non coincidono con quelli lavorativi. Mi piacerebbe avere un figlio, ma come si fa? Ci hanno lasciati nella condizione di non poter neanche sognare. Allora non penso al mio futuro, è una scelta consapevole. Non mi vedo da qui a domani, un mese, un anno. Tutto è ridimensionato, anche i sogni». Non serve a nulla dormire. Domani Sara si sveglierà ancora nella stessa casa, ancora alla ricerca di una speranza. Ancora stanca.

Luigi Caputo