Prestiti “baciati” concessi con garanzie insufficienti o spesso assenti, azioni vendute ai clienti con poca chiarezza, speculazioni finanziarie di vario genere. Sono questi alcuni dei motivi che stanno dietro al fallimento del Banco Popolare di Bari, dal 13 dicembre scorso sotto commissariamento dopo le indagini della Procura di Bari e le sanzioni della Banca d’Italia. La vicenda ha riaperto dibattito sui salvataggi e il funzionamento degli istituti bancari in Italia. Ma perché ciclicamente si assiste a fenomeni del genere, in particolare per le banche popolari? La vicenda della Popolare di Bari, però, è solo l’ultimo scandalo in ordine cronologico che coinvolge istituti simili segnati da vicende giudiziari, crack e fallimenti dovuti a un sistema creditizio dalla manica larga e a investimenti sbagliati che ne hanno determinato il fallimento.

Il caso Il Banco Popolare di Bari nasce nel 1960 per iniziativa della famiglia Jacobini, per generazioni al comando della società. Nel corso degli anni il banco riesce a crescere, acquistando filiali e inglobando sportelli in tutto il Mezzogiorno. Il processo di espansione si allarga notevolmente dopo il fallimento del Banco di Napoli, che permette alla Popolare di affermarsi nei servizi finanziari in tutto il Sud entrando nella lista delle 10 banche popolari più importanti del Paese. L’espansione, però, che vorrebbe portare la Popolare di Bari al centro di un grande gruppo finanziario nel Meridione, ha un costo. E il prezzo viene pagato già dal 2016, solo due anni dopo l’approdo di Luigi Jacobini al comando dell’istituto, quando la Procura di Bari avvia le indagini a carico dei vertici. Il motivo: il buco lasciato in seguito all’acquisizione del gruppo di Banca Tercas e della sua controllata, l’abruzzese Caripe.

Fonte: Ansa/Centimetri

Le indagini – La segnalazione arriva in Procura tramite un dipendente del gruppo barese, insospettito da alcune operazioni poco chiare proprio riguardo l’acquisto della banca abruzzese. Nel frattempo gli affari continuano: nel 2017 il gruppo sigla un accordo con Cerved Management, società dell’omonimo gruppo, che gestisce i cosiddetti non performing loans, ovvero crediti deteriorati, quelli che una banca è destinata a perdere in quanto i creditori sono impossibilitati a saldare per fallimento o altre cause. L’operazione muove 1,1 miliardi di euro in crediti deteriorati che la banca barese non riusciva a riprendere, ma solo un anno più tardi la cifra di questi crediti ammonta a 2,5 miliardi sui 7 totali. Lo stesso anno anche la Consob si concentra sulla Popolare di Bari e arrivano multe per 2,6 milioni per diverse violazioni, tra cui l’ipotesi di falsificazione dei prospetti per gli aumenti di capitale della Popolare del 2014 e del 2015.

Il crack – Con le indagini della Procura di Bari e le sanzioni della Consob, la Popolare di Bari vive una crisi interna che vede dimettersi figure di spicco come Giorgio Papa. Gli subentra Vincenzo De Bustis, già direttore generale all’epoca della acquisizione di Tercas, poi rivelatasi fallimentare, tornato al comando della società con l’obiettivo di attirare investimenti e allargare a nuovi soci. Che effettivamente arrivano: circa 30mila adesioni sociali in più, 96mila in totale al momento del commisariamento effettuato da Bankitalia. Che intanto ha inviato a Bari i propri ispettori. Si arriva all’estate del 2019, pochi mesi prima della rovina, quando con i conti in rosso finisce l’era Jacobini e viene nominato Gianvito Giannelli, accademico legato a Marco Jacobini, fratello dell’uscente Luigi, e marito di Isabella Ginefra, a lungo sostituto procuratore proprio a Bari.

Il salvataggio – Il filo che mantiene in piedi la Popolare di Bari si spezza e arriva il crack. Quel 13 dicembre il governo di Giuseppe Conte si riunisce e discute riguardo il salvataggio dell’istituto, nel baratro dopo il fallimento del gruppo Fusillo, attivo nel mondo del turismo in tutta la Puglia. Il buco lasciato nei bilanci della Popolare è importante: negativo di 420 milioni nel 2018, ulteriormente aggravato da altri 200 circa cui la banca non puo’ rispondere in denaro. Il momento è delicato anche per l’esecutivo, che nella sua precedenza declinazione giallo-verde aveva spinto per il sostentamento dei gruppi finanziari del Sud nel quadro più ampio del “Banco del Mezzogiorno”, idea paventata più volte dall’allora ministro del Tesoro Luigi Di Maio. La mossa di Palazzo Chigi in versione giallo-rosa arriva in pochi giorni, subito dopo la nomina da parte della Banca d’Italia di Enrico Ajello e Antonio Blandini come commissari, e Livia Casale, Francesco Fioretto e Andrea Grosso come componenti del comitato di sorveglianza. Il decreto lancia un salvagente da 900 milioni per impedire la chiusura del banco e finanziare Mediocredito Centrale, soggetto controllato dal ministero dell’Economia che a sua volta comprerà le quote della Popolare di Bari.

Vincenzo De Bustis. Fonte: Ansa

I nodi – L’intervento del governo per salvare la Popolare di Bari non rappresenta di per sé una novità nello scenario italiano. Già in passato diversi decreti salva-banche sono stati votati in Parlamento da governi di ogni colore e posizione. Nel caso dell’istituto pugliese, in particolare, resta la natura delle banche popolari, ciclicamente vicine a fallimenti simili e sempre rimpolpate con denaro pubblico, a destare perplessità. Questa particolare forma di banco nasce in Germania sul finire dell’Ottocento con lo scopo di partecipare allo sviluppare economico dei territori dove operano attraverso rapporti con imprenditori e soggetti locali che detengono anche le quote. Il sistema ha caratteristiche potenzialmente positive per l’economia locale, con un rapporto tra le banche e le imprese locali a definire solidità. Le popolari hanno avuto largo successo in Italia, ma le peculiarità che avrebbero dovuto renderle veicolo di ricchezza sociale sono state tradite e le hanno paradossalmente rovinate. Sul piano giuridico, infatti, il sistema è sostenuto, per esempio, dal concetto di mutualità e dal limite di possesso delle azioni per cui ogni socio puo’ detenere al massimo l’1 per cento del capitale sociale. Un concetto rinforzato dal voto capitario, cioè la regola prevista dal diritto societario per la quale ogni socio è titolare di un voto a prescindere dalle quote detenute. Un principio anacronistico rispetto al mercato globale che esiste oggi, utilizzato inoltre per detenere il controllo degli istituti e quindi il controllo stesso del territorio di appartenenza. Il risultato è stata la costruzione di vere e proprie fortuna portate avanti da gruppi familiari, come si è visto, non sempre in maniera cristallina. I rapporto molto ristretti, le modalità di appartenenza esclusiva di imprenditori locali e persone fidate, hanno reso il sistema delle banche popolari un porto franco per fenomeni di clientelismo finanziario, con investimenti malsani e prestiti facili che hanno aumentato il debito. Neppure il decreto voluto dall’esecutivo di Matteo Renzi sulla riforma delle banche popolari, che prevedeva anche l’abolizione del voto capitario, ha inciso sugli aspetti negativi delle banche popolari. Il sistema ha retto fino a quando i mutamenti scaturiti dalla crisi finanziaria mondiale sono entrati anche nelle popolari. Le acquisizioni dei grandi gruppi di credito degli ultimi anni hanno ridotto il loro numero, concentrando il potere finanziario e allargando a livello nazionale entità bancarie originariamente pensate per rispondere a dimensioni ben più ridotte. Resta il fatto che le popolari non hanno perso la propria capacità di intrattenere relazioni, anche indecenti, come si evince dai diversi fascicoli giudiziari. Che continuano a essere aggiornati, ciclicamente, fino al prossimo crack.