I colossi del web devono pagare le tasse nel Paese in cui fanno i propri affari. Ecco perché nella Legge di Stabilità è stata inserita una Web tax. È un concetto semplice da formulare: niente favoritismi per i cosiddetti over-the-top. Oggi aziende come Google, Amazon e Facebook pagano l’un per mille di tasse sui propri profitti. Anche in Italia, dove la tassazione per le imprese in molti casi supera il 60 per cento. Con complicati sistemi finanziari dai nomi pittoreschi come “panino olandese”, eludono il fisco. Appare ingiusto, ma far pagare le tasse in Italia alle multinazionali è complesso, ed è contrario al libero scambio delle merci (uno dei principi fondativi dell’Unione europea).

Ecco perché il Centro studi della Camera, nella serata del 18 dicembre, ha espresso tutte le sue perplessità:

Il comma 17-bis non appare compatibile con la normativa comunitaria in materia di libertà di circolazione di beni e servizi. Si valuti, inoltre, che la disposizione introduce un obbligo per i consumatori che presuppone una attività di informazione ai cui fini la disposizione non fornisce specifici strumenti.

Così i tecnici hanno scalfito l’impianto della norma. Anche di quest’avvertimento dovrà tener conto la politica. Il percorso della cosiddetta Google tax, poi ribattezzata Web tax finora è stato travagliato Con gli ultimi emendamenti è anche diventata Spot tax. È un provvedimento inserito nella Legge di stabilità ideato dal deputato del Partito democratico Francesco Boccia. Farà parte del testo definitivo: ora la norma può essere solo emendabile. E, negli ultimi giorni, le modifiche sono state molte, fino a cambiare la natura e il fine stesso della legge.

Intanto il nome. “Chiamarla Google tax è stato un errore di comunicazione”, riconosciuto il 17 dicembre dal ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato (tra i sostenitori del progetto di legge). Come ha spiegato il ministro, non si vuole tassare chi utilizza Google: si vuole obbligare i colossi del web a registrare una partita iva italiana. Così dovranno pagare allo stesso modo delle imprese italiane.

Ma gli effetti possono essere perversi. Non bisogna pensare solo ai profitti miliardari di Apple, Microsoft e Amazon, presenti in tutto il mondo perché parte irrinunciabile dell’ecosistema del web. L’economia è globale e molte aziende italiane lavorano con servizi web prodotti all’estero: da server con sede all’estero a piccoli pezzi di codice utili a gestire i commenti di un sito web come Outbrain. Non è scontato che queste aziende abbiano interesse ad aprire una partita iva in Italia. E le imprese italiane dovranno rinunciare ai loro servizi.

Quindi, prima di tutto dal testo è stato escluso l’e-commerce, perché il commercio elettronico è per sua natura transnazionale. Poi è sparito quasi tutto il resto. E ora la tassa si applica solo alla pubblicità online. Ecco perché è diventata una “spot tax”. Per le aziende italiane utlizzare i servizi pubblicitari di Google e Amazon sarà più complicato. I rischi sono di rinchiudere le imprese in un recinto nazionale.

Il problema di tassare Google e gli over-the-top resta, anche con la nuova tassa. Ed è per questa ragione che molti politici (tra cui Matteo Renzi) preferirebbero una soluzione comunitaria

Vincenzo Scagliarini