L’inflazione statunitense torna a crescere a livelli esponenziali. Non succedeva dalla crisi economica del 2008. L’indice dei prezzi al consumo si è impennato del 4,2% nel mese di aprile, con un aumento dello 0,8% rispetto a marzo. Si tratta di un effetto legato a due ragioni in particolare: la progressiva uscita dalla crisi pandemica e le tensioni createsi nella supply chain, la catena di domanda e offerta. Al momento la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha mandato un messaggio rassicurante. «È probabile che questi aumenti una tantum nei prezzi abbiano solo effetti transitori sull’inflazione sottostante», ha detto il vice chairman della Fed, Richard Clarida, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore. La calma predicata dalla banca statunitense sembra trovare riscontri positivi nei sondaggi degli economisti, che prevedono una frenata dell’inflazione al 2,6% entro dicembre. Secondo altri, invece, si tratterebbe di segnali troppo complessi da interpretare e ci vorrà del tempo per analizzare meglio la situazione nel lungo periodo.

L’analisi – Tanto potere d’acquisto e un’offerta di mercato ancora zoppicante. Questo è quello che sta succedendo negli Usa con l’incalzare dell’inflazione: le persone hanno denaro da spendere ma mancano i prodotti sul mercato. Una questione che ha fatto sollevare l’indice dei prezzi oltre il 4%; e considerando solo i prezzi “core” – ovvero quelli che escludono energia e beni alimentari – questi hanno subìto un aumento del 3%. Questa crescita però non è del tutto inaspettata. Gli economisti avevano previsto che la ripresa dalla crisi da coronavirus sarebbe stata diseguale. Era altrettanto prevista un’accelerazione ad aprile, mese in cui è arrivata una buona parte degli assegni del piano Biden. Anche la campagna vaccinale condotta negli Usa ha rassicurato molti cittadini e questo ha influito sulla stabilità dei prezzi. La lungimiranza degli analisti, però, aveva predetto una crescita del +3,5% e non del 4,2%. Uno scenario di rincari generalizzati che è andato oltre le aspettative. Al momento la Fed non sembra intenzionata ad intervenire e la speranza rimane questa, anche perché in caso contrario ci sarebbe un irrigidimento della politica monetaria.

La ricaduta sulle Borse americane – Le principali Borse statunitensi corrono ai ripari. Wall Street è andata in ritirata, nella paura che la Federal Reserve sia costretta a bloccare gli stimoli economici prima del previsto. Il Nasdaq, la piazza d’affari tech per eccellenza, è quella che ha subìto di più il colpo inflazionistico, registrando una perdita del -2%. Anche il Dow Jones è calato oltre l’1%. La scossa dei prezzi ha interessato anche i titoli decennali del Tesoro, che hanno visto aumentare i rendimenti dall’1,623 all’1,684. Anche la moneta Usa ha guadagnato sull’euro, sceso a 1,21 dollari.

Le parole degli esperti – «Prevedo che l’inflazione ritorni al nostro obiettivo di lungo periodo del 2%, o leggermente sopra, nel 2022 e 2023», ha dichiarato Richard Clarida. Ma se da una parte la Fed rassicura e parla di una situazione momentanea, dall’altra Mickey Levy di Berenberg Bank (la banca più antica della Germania) ha espresso un parere contrastante: «La questione se l’inflazione sia temporanea o più persistente dipende dalla traiettoria della domanda aggregata – ha detto al Sole 24 Ore – Se rimane forte dopo la riapertura dell’economia, come mi aspetto, in presenza di stimoli fiscali e di politica monetaria senza precedenti, le pressioni inflazionistiche aumenteranno assieme ai costi di produzione e il business avrà la flessibilità di alzare i prezzi. La capacità della Fed di gestire le aspettative inflazionistiche verrà messa alla prova».

Le conseguenze in Europa – Lo scopo della Bce è uno: mantenere la stabilità dei prezzi attorno al 2% annuo. In Germania si è verificato un rincaro a un tasso annuo superiore al 2%. L’esponente tedesca della Bce, Isabel Schnabel, ha affermato che il sostegno monetario agli Stati non diminuirà in alcun modo, anche se l’inflazione tedesca dovesse oltrepassare il 3%. Il clima di fiducia europeo si riflette anche sulla resa del Btp decennale benchmark, tornato all’1% per la prima volta da settembre 2020.