La maggiore caduta di sempre a Wall Street in termini assoluti. Il lunedì nero dei mercati americani si è consumato con il Dow Jones, il più noto indice della borsa di New York, che nella seduta del 5 febbraio ha perso in un colpo solo 1.597 punti, il 4,6% del suo valore. Un negativo record storico, mai la borsa Usa aveva perso tanto in una sola seduta, che arriva a pochi giorni dal massimo storico toccato dal listino lo scorso 26 gennaio, quando raggiunse quota 26.616 punti. In scia, la mattina del 6 febbraio, le borse asiatiche hanno tutte chiuso con forti perdite nell’ordine dei 3-4 punti percentuali, seguite dai listini europei: Milano giù del 3,6% in apertura, Francoforte del 3,3%, mentre l’indice paneuropeo Dj Stoxx 600 cedeva il 2,8% segnando il peggior inizio di seduta dal giugno del 2016, come segnalato dall’agenzia Bloomberg. Ma perché la borsa americana, e di conseguenza le borse mondiali, crollano all’improvviso dopo un 2017 e un inizio d’anno all’insegna dell’euforia sui mercati? Può sembrare paradossale ma non lo è, come spesso accade quando la finanza e i mercati si scollegano dalla realtà congiunturale del momento: è proprio il buon andamento dell’economia, che potrebbe portare a un aumento del costo del denaro, a spaventare la borsa e spingerla al ribasso.

Crescita dei salari – La caduta della borsa americana in realtà è iniziata tra giovedì 1 e venerdì 2 sull’onda degli ultimi dati diffusi sull’economia Usa. Dalla congiuntura sono arrivate buone notizie. Il mercato del lavoro negli Stati Uniti si mostra solido: nell’ultimo mese sono stati creati 200 mila nuovi posti di lavoro e la disoccupazione è ai minimi (4,1%). Il buon andamento dell’occupazione sta spingendo all’insù i salari, cresciuti quasi del 3% nell’ultimo anno. Un aumento dei salari è il fattore che finora era mancato all’interno della dinamica della ripresa economica globale ormai da tempo in atto. Ora sta cominciando a verificarsi ed è proprio questo aumento degli stipendi a mettere in allarme la borsa.

Inflazione e rialzo dei tassi – I mercati sono distanti dall’economia reale. L’aumento dei salari dovrebbe essere una buona notizia per tutti, ma per la finanza non lo è perché la ripresa salariale nasconde un lato “negativo”: se aumentano i salari, aumenta l’inflazione. E se aumenta l’inflazione, le banche centrali (la Fed americana, la Bce e le altre) sono costrette a rivedere le politiche monetarie espansive che hanno messo in campo in questi anni. Dallo scoppio della crisi in avanti, e nel corso di tutta questa lunga e lenta ripresa, le banche centrali hanno tenuto basso il costo del denaro abbattendo i tassi di interesse (tenendoli vicini allo zero o addirittura negativi). Ma ora, se l’inflazione torna a crescere dopo anni di quiete, le banche centrali si troveranno costrette ad accelerare i rialzi dei tassi di interesse già programmati e lasceranno i mercati senza quella “droga” di liquidità di cui le borse si sono assuefatte negli ultimi anni. La cifra iniettata dalle banche centrali sui mercati dal 2008 a oggi si aggira sui 15 mila miliardi di dollari. I mercati così scontano in anticipo questo rischio legato al fatto che le dinamiche di crescita dell’economia reale portino a un rialzo del costo del denaro. Ma la sfida che si giocherà adesso sui mercati è tra chi scommette su una correzione degli indici ritenendo troppo elevate le quotazioni raggiunte da molti titoli e chi, confidando nei buoni parametri fondamentali delle aziende quotate che sono sospinti dal positivo contesto economico, crede che il mercato smaltirà in poche sedute la preoccupazione per tassi più elevati in arrivo. Decisione che comunque spetterà al neo presidente della Fed Jerome Powell, che ha preso ufficialmente il posto di Janet Yellen proprio lo scorso 5 febbraio, nel giorno del “lunedì nero” di Wall Strett.