Truppe americane in Afghanistan – (Ansa.it – Jalil Rezayee)

Stavolta sembra finita davvero. Dopo vent’anni, quasi 3mila soldati uccisi e 2mila miliardi di dollari spesi, gli Stati Uniti si congedano dall’Afghanistan. «Dobbiamo porre fine a questa lunga guerra»: così il presidente Joe Biden ha annunciato alla nazione lo stop di una presenza militare che molti analisti facevano coincidere con l’idea stessa dell’universalismo a stelle e strisce. Troppe le vittime, gli investimenti sfumati, troppo profondo il solco psicologico scavato nella psiche di una generazione che dall’11 settembre 2021 rimarrà orfana del conflitto che, partito come vendetta per i morti delle Torri gemelle, si era poi trasformato in un piaga aperta tutt’altro che immune da sospetti di dominio neo-colonialista. Già, perché l’inquilino della Casa Bianca ha scelto proprio il ventennale dell’attentato al World Trade Center come giorno per il ritiro dell’ultimo dei 10mila soldati internazionali. Una strage rimasta impressa negli occhi del mondo intero, all’indomani della quale l’allora presidente George W. Bush ordinò il repulisti: rovesciare l’Afghanistan, disarmare l’Iraq.

Smobilitazione Nato – A lasciare il suolo afghano non saranno solo i marines, ma tutto il contingente di 10mila soldati internazionali Nato (tra cui 800 italiani), coordinati da Washington. «Con i nostri alleati siamo arrivati insieme, e insieme ce ne andremo», ha dichiarato Biden, che per rispettare appieno il simbolismo ha spostato di quattro mesi la data del rientro dell’ultimo uomo rispetto al termine fissato nell’accordo di Doha con il suo predecessore, Donald Trump. Una decisione che ha scatenato l’ira dei talebani, irremovibili rispetto alla scadenza del primo maggio negoziata con la precedente amministrazione: un’ostilità condivisa da Mosca, con il Ministro degli Esteri Sergej Lavrov che ha definito l’allungamento dei tempi una «chiara violazione dell’accordo americano – talebano». Il Cremlino, sempre più restio al dialogo con le forze atlantiche, ha appoggiato la decisione di disertare la conferenza di pace di fine mese di Istanbul e di «non tornare al tavolo negoziale fino al ritiro dell’ultimo soldato straniero». Nel frattempo i talebani esultano. «Abbiamo vinto, di nuovo», gli slogan scanditi nelle alture di Kandahar, roccaforte della resistenza contro gli americani come quarant’anni fa lo era stata contro le truppe dell’Armata Rossa. Il rischio ora è quello che i talebani non rispettino la tregua armata, e che riprendano il potere.

Genesi di un disastro – «Ci sono poche cose che la Storia insegna come verità universali: una di queste è che non bisogna mai invadere la Russia. E direi anche l’Afghanistan». Così lo storico Alessandro Barbero riassumeva le difficoltà di intervento nel Paese asiatico, da oltre quarant’anni asse centrale dei turbamenti geopolitici mediorientali e non solo. Che Kabul non fosse una preda facile lo aveva intuito Breznev, che aveva ordinato l’invasione sovietica nel 1979, e definitivamente compreso Gorbacev, che dieci anni più tardi dispose il dietrofront. La resistenza afghana si organizzò grazie ai mujaheddin, i guerriglieri armati proprio dagli Stati Uniti e coagulatisi attorno alla figura carismatica di Ahmad Shah Massoud, “il Leone del Panshir”, assassinato proprio alla viglia dell’attentato al World Trade Center. Proprio dalle frange più estreme delle sacche di resistenza emersero più tardi i talebani, gli studenti integralisti delle scuole coraniche sunnite. Alla “Vietnam in salsa russa” seguirono anni di conflitto civile e di sangue. Nel 1996 i talebani si insediarono a Kabul, dove a comandare, ora, era solo e soltanto il Corano

Osama Bin Laden e Ayan al Zawahiri, rispettivamente ex numero uno e due di Al Qaeda (Wikimedia Commons)

Una guerra inutile? –  Con gli attentati dell’11 settembre del 2001 il mondo cambiò. E con esso la politica estera americana, fresca dell’insediamento di un’amministrazione Bush che anni più tardi sarebbe passata alla storia come l’ideatrice della dottrina della “guerra preventiva”, contro i cosiddetti “Stati canaglia”. Esportare la democrazia: così il Dipartimento di Stato giustificò un’invasione nata come un blitz e finita come una guerra di posizione. Era il nuovo ruolo americano nel mondo a essere insidiato da Kabul, nella convinzione che l’Afghanistan dei talebani fosse il santuario dal quale la jihad si propagava verso ovest. Il suo supremo ispiratore, il capo di Al Qaeda Osama Bin Laden, fu assassinato dieci anni fa in un blitz delle teste di cuoio Usa ad Abbottabad, in Pakistan. Da allora le ragioni della presenza americana sul territorio sono diventate sempre più ondivaghe, difficili da comprendere per gran parte di un’opinione pubblica che si sarebbe accontentata di scorgere nella cravatta del nuovo presidente Hamid Karzai il volto di un Afghanistan finalmente occidentalizzato. Detronizzato anche il nemico di (quasi) sempre Saddam Hussein («Invademmo l’Iraq truffando il Consiglio di Sicurezza dell’Onu», dichiarò poi il Segretario di Stato Colin Powell), gli Usa decisero di andare comunque avanti, di estirpare il nemico alla radice. Non ci sono riusciti. «Combattere in Afghanistan – commentò un ufficiale della Delta Force rimasto anonimo – è come infilare le mani in un grande impasto per il pane. Quando le immergi credi di avere il controllo della situazione, ma non appena le rimuovi tutto torna a essere una matassa informe e spugnosa». I talebani, infatti, sono ancora al loro posto. Di nuovo. E a fronteggiarli resta solo il popolo afghano.