La nuova legge sull’aborto approvata il 10 marzo in Arkansas sfida l’America progressista di Joe Biden. Firmata dal governatore repubblicano dello stato meridionale, Asa Hutchinson, la norma consente l’interruzione di gravidanza solamente nel caso in cui la nascita del bambino metta a rischio la vita della madre. Gravidanze in seguito a stupri, incesti o rischi di anomalie fetali non fanno eccezione. Le sanzioni previste per chi viola la norma, di per sé già particolarmente restrittiva, inaspriscono la natura del provvedimento: una multa fino a 100.000 dollari e 10 anni di carcere. «Dobbiamo abolire l’aborto così come abbiamo abolito la schiavitù nel 19mo secolo», ha commentato il repubblicano Jason Rapert, il principale sponsor della norma.

L’aborto negli Usa – Il picco di aborti in un anno fu raggiunto nel 1985: 1.578.800. Nel 2017 sono stati 862.300. Oggi il rapporto degli Usa con questa pratica è controverso. Le posizioni prevalenti sono quattro. In 17 stati è prevista senza alcuna restrizione. La legge del Colorado e del Minnesota la concede con alcune eccezioni: per esempio, in caso la ragazza sia minorenne, un genitore deve essere informato prima dell’intervento. In altri 11 stati, il margine di tolleranza è segnato dal tempo, circa 20 settimane dopo l’atto sessuale, dopodiché non c’è più possibilità di ricorrere all’aborto. I proibizionisti si concentrano nei restanti 16, per la maggior parte stati del Sud, in cui l’interruzione di gravidanza è fortemente limitata. Oltre alle restrizioni assicurative, qui la legge impone un’attesa di 72 ore prima dell’aborto e il consenso certificato del genitore, se a richiederlo è una minorenne.

Il precedente storico – Gli stessi repubblicani sanno bene che il nuovo provvedimento verrà bloccato nelle corti minori. Ma il loro obiettivo principale sarebbe un altro e punta al vertice del sistema giudiziario statunitense. L’ala conservatrice confida nella netta maggioranza che l’ex presidente Donald Trump ha insediato nella Corte Suprema, la quale potrebbe così intervenire nella querelle che dal 1973 agita le acque americane. Il 22 gennaio di 48 anni fa veniva infatti emanata una sentenza storica, ribattezzata “Roe vs Wade“. Con sette voti favorevoli e due contrari, il massimo tribunale del Paese legalizzò l’aborto. Prima di allora, la pratica era disciplinata dai singoli stati. Tutto nacque dalla causa che Norma McCorvey, alias Jane Roe, presentò contro il procuratore di Dallas, Henry Wade. La donna, rimasta incinta per la terza volta, decise di avviare un processo contro le leggi anti-aborto del Texas. La richiesta per la dichiarazione di incostituzionalità della legge texana, mossa dalla sua avvocatessa Sarah Weddington, venne accolta dalla Corte sulla base dell’interpretazione dell’emendamento IX della Costituzione, in cui compare, tra gli altri, il diritto di scegliere sul futuro della propria gravidanza. Wade, l’avvocato che rappresentava lo Stato del Texas – in disaccordo con la decisione della Corte Federale – decise di appellarsi alla Corte Suprema, che emanò la sentenza epocale. La scelta influì non solo sul caso specifico, ma sulla sorte di altri 46 Stati. La Corte Suprema prese posizione appellandosi all’emendamento XIV della costituzione, per cui «[…] nessuno Stato porrà in essere o darà esecuzione a leggi che disconoscano i privilegi o le immunità di cui godono i cittadini degli Stati Uniti in quanto tali; e nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, della libertà o delle sue proprietà, senza giusto processo (due process of law), né rifiuterà ad alcuno, nell’ambito della sua sovranità, l’eguale protezione davanti alla legge (equal protection of the laws) […]».

Una disputa lunga cinquant’anni – La vexata quaestio sull’aborto anima il popolo americano da quel lontano 22 gennaio. Non si è ancora giunti a una soluzione che soddisfi entrambe le parti in causa, pro-life e pro-choice. Innanzitutto per ragioni giuridiche: per gli anti-abortisti il popolo americano non si è mai veramente espresso sul tema. A complicare il tutto sarebbero le ragioni culturali: se per gli abortisti non può essere messo in discussione il diritto di scelta della donna, per la controparte la difesa della vita del nascituro è imprescindibile. La politica si è schierata da tempo. I democratici abbracciano una linea progressista, per cui alla madre spetterebbe la scelta, mentre i repubblicani inorridiscono all’idea che il feto possa essere ucciso con così tanta facilità. Nella zona grigia, spuntano orientamenti ibridi, come quello del presidente Biden, per cui esiste una differenza tra la posizione personale, in difesa del nascituro, e quella pubblica, per cui lo stato laico non dovrebbe intromettersi in simili vicende.