Ha criticato il governo cinese e per questo rischia di essere espulso dalla sua università. Che però non è in Cina, ma in Australia. È quel che è successo a Drew Pavlou, studente 20enne della University of Queensland e membro del senato accademico, che per aver esercitato un diritto riconosciuto in tutto l’Occidente ora rischia di dover abbandonare quello che per eccellenza dovrebbe essere il luogo dove esprimere le proprie opinioni, battersi per degli ideali che, una volta adulti, potrebbero sembrare troppo lontani dalla quotidianità per meritare tempo ed energia. In particolare, Pavlou è finito nei guai per aver criticato aspramente il Partito comunista cinese (sui social e al senato), aver difeso la libertà di Hong Kong in manifestazione e aver denunciato l’ingerenza cinese attraverso le sue istituzioni culturali.

Prese di posizione – Eletto dalla maggioranza degli studenti attraverso una piattaforma che supporta Hong Kong e si oppone agli Istituti Confucio (organizzazioni culturali gestite dal Partito Comunista e connesse ai campus di tutto il mondo), il 20enne Pavlou aveva anticipato alcune settimane fa le mosse delle istituzioni dell’università. «Quasi certamente tenteranno di espellermi dal senato accademico della UQ», aveva detto. Aggiungendo che al suo posto avrebbero probabilmente messo una persona favorevole al Partito. Ha anche raccontato di essere stato fisicamente aggredito da presone vicine al Partito comunista durante una manifestazione pro-Hong Kong organizzata dagli studenti.

Le accuse – Contro Pavlou, iscritto alla facoltà di Filosofia, l‘università ha preso provvedimenti disciplinari, iniziando un processo (in corso) per diffamazione, condotta intimidatoria e irrispettosa e interruzione del servizio universitario – queste solo alcune delle undici accuse – e presentando come prove alcuni commenti sui social media in favore del movimento per i diritti democratici di Hong Kong a nome dell’istituzione. L’università, inoltre, sostiene che a marzo – durante l’emergenza coronavirus – Pavlou avrebbe posto un cartello davanti alla sede dell’Istituto Confucio che secondo le autorità comportava rischi biologici.

La risposta degli studenti – I colleghi del giovane studente sono rimasti vicini a chi avevano eletto e hanno catalizzato l’attenzione sul procedimento in corso. Ali Amin, membro dell’Unione nazionale degli studenti australiana, ha dichiarato che «questo è uno dei peggiori attacchi contro un’organizzazione politica e la libertà di espressione mai visti da parte di un’università, il che manda un pericoloso segnale ai movimenti studenteschi: tutti sono perseguibili”. In Australia la libertà di espressione non è diritto costituzionalmente protetto, ma raramente le università scelgono di imporsi su questa – fragile – materia. Nel frattempo è comparsa una petizione su Change.org per esprimere il proprio supporto a Pavlou e in poche ore ha raccolto oltre 25mila firme.

Intimidazione – Secondo alcune tesi, i membri più illustri dell’UQ (istituzione tra le migliori d’Australia e famosa nel mondo) sarebbero molto vicini agli ambienti del Partito, non diversamente da altri sull’isola: sembra essere pratica comune, infatti, che in mancanza di fondi vengano aperti Istituti Confucio e programmi di ricerca in collaborazione con la Cina dentro gli istituti. Questo non sarebbe il primo episodio, inoltre, di alterazione del dibattito studentesco e di ricerca: diversi professori australiani sembra siano stati costretti a scusarsi dopo aver considerato Taiwan un Paese a tutti gli effetti e molti avrebbero scelto di rimuovere temi suscettibili per la Cina dai loro programmi, mentre diverse case editrici si sarebbero rifiutate di stampare il libro Silent Invasion: China’s Influence in Australia (uscito poi nel 2018). Hacker cinesi riconducibili al ministero della Sicurezza di Stato di Beijing sembrano infine essere dietro al grande cyber attacco durante le elezioni generali di maggio, che ha visto aggressioni ai profili del Parlamento e di alcuni partiti.