Tredici anni e nove mesi al potere di uno Stato, la Bolivia, che nel panorama americano sembrava tra i più stabili. Un voto, quello del 20 ottobre scorso, dai contorni poco chiari che ha trascinato opposizione e popolo in strada per chiedere un cambiamento al potere. Tre settimane dopo, Evo Morales, il «presidente indio» accusato di aver avvallato i brogli elettorali che lo avevano confermato al potere per la quarta volta, si è dimesso. È successo ieri, domenica 10 novembre, 73 giorni prima della fine del suo mandato. Lo ha annunciato poco dopo una conferenza stampa dell’Esercito boliviano che lo invitava a «considerare» l’ipotesi di lasciare la carica. Nelle ore successive una folla di manifestanti sostenitori di Luis Fernando Camacho, principale oppositore di Morales e leader del Comité pro Santa Cruz, ha saccheggiato e infiammato la casa presidenziale, mentre i militari ammainavano la bandiera indigena Whipala, voluta proprio da Morales accanto a quella nazionale. E mentre l’ex presidente, su cui ora pende un ordine di cattura, annuncia che non lascerà il Paese perché «non ha nulla da nascondere», le forze internazionali iniziano già a prendere una posizione. Il Messico ha già accolto una ventina di membri del Parlamento e dell’esecutivo ormai deposti, mentre il Venezuela e Mosca parlano già di un «colpo di Stato» e un «attentato alla democrazia». Per il Brasile di Bolsonaro, dichiaratosi disponibile ad accompagnare la Bolivia in un processo di transizione al potere pacifica, non c’è dubbio: nessun golpe.

L’ordine di cattura – Morales ha messo a tacere voci sulla sua possibile fuga dal Paese, annunciando di essersi rifugiato a Cochabamba, dove iniziò la sua carriera politica, nelle stesse ore in cui si iniziava a parlare di un ordine di cattura nei suoi confronti. Provvedimento che lui stesso ha confermato sul suo profilo Twitter: «Dichiaro al mondo e al popolo boliviano che un funzionario di polizia ha detto pubblicamente di avere istruzioni per eseguire un ordine di arresto illegale contro la mia persona». A un’emittente locale Morales, accusato da Camacho di essere scappato da La Paz per evitare eventuali sanzioni, ha poi dichiarato di non avere alcuna «ragione per scappare», dato che non ha «rubato nulla», ma che il suo peccato è quello di  «essere indigeno, dirigente sindacale, raccoglitore di coca», aggiungendo che «se capiterà qualcosa a me e a al vicepresidente pure dimissionario Alvaro Garcia Linera, sarà colpa di Mesa e Luis Ferdinando Camacho». Secondo Morales, i suoi oppositori politici avrebbero offerto fino a 50.000 dollari a chi lo avesse consegnato e accusa, sempre tramite i social, i suoi antagonisti di essere «razzisti e golpisti» e di essere i responsabili della destabilizzazione della democrazia pacifica dello Stato. La stessa che lui, dichiara, ha cercato di difendere con le proprie dimissioni, per non aumentare la violenza dilagante in strada dal giorno delle ultime elezioni.

I boliviani festeggiano le dimissioni di Evo Morales, alla guida del Paese da quasi 14 anni. Foto di EPA/Martin Alipaz

Le ultime elezioni – Nemmeno un mese fa, era il 20 ottobre, il Movimento per il Socialismo (MAS) di Morales si confermava per la quarta volta alla guida del Paese con il 47% dei voti contro il 36% di Comunità Cittadina, sotto la guida dello sfidante Carlos Mesa. Proprio in quell’11% di scarto tra i due principali partiti sta la miccia che ha gettato la Bolivia nel caos. Mesa, appoggiato da Luis Fernando Camacho, aveva subito denunciato irregolarità nel conteggio dei voti. Secondo la legge elettorale attualmente in vigore in Bolivia, per evitare il ballottaggio tra le due principali forze politiche è necessario che una ottenga oltre il 10% più dell’altra alle elezioni. Stando ai risultati di un rapporto preliminare sulla validità dello spoglio dei voti, pubblicato ieri dall’Organizzazione degli Stati americani (OEA), il MAS sarebbe sì stato il primo partito per numero di voti, ma senza un distacco così forte da poter evitare un secondo voto. Già lo scorso 8 novembre l’agenzia di auditing Ethical Hacker, a cui era stata affidata la procedura tecnica di analisi dei voti, aveva dichiarato che: «È difficile per noi dire se ci siano stati brogli o meno, quello che posso dire è che non sono state eseguite le procedure appropriate. Sono state violate l’integrità del database, il software delle elezioni, le procedure, ci sono state incoerenze, gran parte di ciò che è stato trovato evidenzia che il processo elettorale è viziato dalla nullità». Per questo l’OEA aveva suggerito di andare a nuove elezioni, e di accompagnarle al rinnovamento dei membri del Tribunale Supremo Elettorale (TSE). Opportunità che Morales aveva accettato poche ore prima delle sue dimissioni formali.

Tre settimane di proteste – In tutto il Paese, all’indomani dei risultati elettorali, sono scoppiate le proteste, con epicentro a Santa Cruz de la Sierra, roccaforte dell’opposizione a Morales. Le manifestazioni si sono poi spostate verso La Paz, la capitale, e sono velocemente sfociate in violenza. Una persona è morta e in centinaia sono rimasti feriti negli scorsi giorni, quando gli oppositori di Morales, tra cui anche la milizia paramilitare di Unión Juvenil Cruceñista, hanno forzato la chiusura dei media di Stato e saccheggiato e dato fuoco alle case dei politici del MAS. Una di loro in particolare è diventata il simbolo della capitolazione del partito socialista: Patricia Arce Guzmán, la sindaca di Vinto, è stata trascinata fuori dalla sua abitazione in strada, coperta di vernice rossa e rasata a zero dai sostenitori di Morales. 

Il referendum del 2016- Va ricordato che, nonostante con Morales la Bolivia abbia indubbiamente conosciuto una crescita economica e industriale mai attraversata prima, da anni gran parte della popolazione aveva iniziato a manifestare insofferenza per l’attaccamento al potere del presidente. Nel 2016 Morales aveva infatti perso un referendum di modifica della Costituzione che gli avrebbe permesso di candidarsi per un terzo mandato alla guida dello Stato. Con l’appoggio del TSE, però, aveva aggirato la bocciatura popolare e si era candidato lo stesso.